mercoledì 2 novembre 2016

PROTEINE: LE MACCHINE MOLECOLARI



Post n. 29

Fino alla metà del secolo scorso, la biologia molecolare era focalizzata principalmente sullo studio delle proteine. A quell'epoca struttura e funzione degli acidi nucleici non erano ancora note, mentre erano note il gran numero di funzioni svolte dalle proteine. Vi sono, per esempio, proteine nelle ossa e nelle cartilagini, esse sono la sostanza fondamentale dei muscoli e della pelle. Proteine sono gli ormoni e le sostanze che ci difendono dagli agenti esterni, altre hanno funzioni di trasporto. All’interno della cellula, nulla si muove senza l’intervento delle proteine. Alcuni esempi sul loro ruolo nella cellula ci aiuteranno a comprendere come ogni organismo vivente sia sotto il controllo costante delle proteine e come senza di loro la vita, sul nostro pianeta, non avrebbe avuto nessuna origine.
Con la scoperta, negli anni cinquanta del secolo scorso, della struttura degli acidi nucleici (DNA e RNA) e del codice genetico, gli studi della biologia molecolare si orientarono principalmente verso lo studio degli acidi nucleici. Da questi studi è risultato che il DNA è formato da quantità discrete, cioè di porzioni ben definite chiamate Geni e tali geni attraverso le regole del codice genetico esprimono le proteine. L’idea originale era che ogni gene esprimesse per una proteina. Quest’idea, attraverso la mistica dei geni replicatori di Dawkins, portò a considerare i geni come regolatori dell’attività cellulare. Quando fu completato il sequenziamento del DNA cioè la conta dei geni è risultato che esso contiene circa ventimila geni, ma le cellule umane contengono circa centomila proteine diverse. Quindi l’idea un gene una proteina non vale più. Questa conclusione, era già chiara all'inizio del nuovo millennio e infatti già a quell'epoca Carol Ezzel in “Adesso comandano le proteine”, Le Scienze 2002 scrive: «Applicare semplicemente i dati prodotti dal progetto Genoma umano - che ha finalmente mandato in soffitta l’obsoleto dogma secondo il quale un gene codifica per una proteina - non risolve il problema». L’autore ci illustra anche come già in quegli anni riprende con vigore lo studio delle proteine ed in particolare delle proteine enzimatiche o Proteomica.
Col proseguo della ricerca sorge un nuovo quadro teorico esplicitato da Richard C. Francis in “L’ultimo mistero dell’ereditarietà” 2011, che in riferimento ai geni afferma: «L’idea tradizionale è che siano una specie di funzionari direttivi che dirigono il nostro sviluppo. L’idea alternativa è che la funzione direzionale si trova a livello dell’intera cellula e i geni funzionano più che altro come risorse a disposizione della cellula stessa». E Steven Rose in “Geni, cellule e cervello”2013 aggiunge: «Non è il DNA a determinare l’attività cellulare, bensì è la cellula in cui il DNA è incorporato a sceglier quali pezzi di DNA usare per costruire determinate proteine quando e come: epigenetica».
Ma, come abbiamo detto, la cellula è sotto il controllo costante delle proteine e in particolare delle proteine enzimatiche o enzimi. All'interno della cellula avvengono migliaia di reazioni chimiche. Nelle condizioni chimico-fisiche in cui si trovano le cellule degli organismi viventi, queste reazioni sarebbero lentissime o non potrebbero avvenire e le cellule non potrebbero sopravvivere. Gli enzimi sono catalizzatori che accelerano e controllano la velocità delle reazioni chimiche permettendo alle cellule di sopravvivere. Per avere un’idea dell’azione di queste sostanze, basti pensare, come scrive Robert M. Stroud in “Una famiglia di proteasi” Le Scienze 1974, che senza gli enzimi proteolitici occorrerebbero 50 anni per digerire un pasto.
La caratteristica principale degli enzimi è la loro specificità, cioè catalizzano una sola reazione chimica. Una cellula di media grandezza contiene circa tremila enzimi diversi che controllano altrettante reazioni. Ognuno di questi enzimi è presente in più copie e per questo motivo all'interno di ogni cellula si trovano circa due milione di enzimi. Sorge quindi il problema di capire come realmente funzionano gli enzimi.
Lo studio del funzionamento della proteine enzimatiche inizia con Emil Fischer nel 1894. Era già noto a quell'epoca che gli enzimi sono costituiti dai venti amminoacidi diversi che compongono tutte le proteine. Un enzima medio contiene circa 300 amminoacidi che si ripiegano a formare una struttura globulare, fondamentale per esplicare la sua funzione. Gli enzimi riconoscono molecole in modo selettivo, ogni enzima riconosce solo un composto o al massimo due denominati “substrato” e su di essi agisce. La parte dell’enzima che riconosce il substrato o i substrati prende il nome di “sito attivo”. Partendo da queste considerazioni Fischer formulò l’ipotesi della “chiave e serratura”. Secondo questa teoria il sito attivo avrebbe una tale forma che il substrato si adatta come una chiave si adatta alla propria serratura.
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Ad ogni chiave la sua serratura, ad ogni composto il suo enzima.
Senza entrare troppo nei particolari, questo modello è stato sostituito dal modello dell’adattamento indotto. Come noto, l‘enzima cambia l’ambiente chimico-fisico al suo intorno. Quando il substrato entra in questo nuovo ambiente e sotto l’azione dell’enzima i suoi legami si allentano e assume una forma diversa chiamata “stato di transizione”. Lo stato di transizione può variare da una molecola all'altra e l’enzima si adatta a queste piccole variazioni di struttura.

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Gli enzimi prodotti dall'evoluzione in quasi 4 miliardi di anni sono veramente sostanze straordinarie, vere e proprie macchine molecolari. Basti pensare che, una sola molecola di catalasi lega e trasforma circa 100 000 molecole di acqua ossigenata al secondo e rilascia altrettante molecole di acqua, e una sola molecola anidrasi carbonica trasforma 600 000 substrati (CO2 e H2O) al secondo.
Oltre all'aspetto catalitico gli enzimi presentano ciò che è stato definito “aspetto sociale”. Come scrive Mike Williamson in ”Come funzionano le proteine” 2013: «L’aspetto sociale associa l’enzima ad altri componenti, con una membrana o una proteina, oppure porta alla formazione di grandi complessi attraverso l’interazione con altri enzimi» E stato accertato che solo poche proteine agiscono da sole, la maggior parte prende parte a complessi e alcuni operano anche in più complessi. I componenti proteici di un complesso possono variare da 2 a 100. I complessi proteici hanno un’organizzazione simile ad efficientissime fabbriche. Per esempio nelle nostre cellule la metabolizzazione del glucosio avviene attraverso decine di reazioni chimiche. Queste reazioni non possono avvenire a caso ma devono essere regolate e programmate alla perfezione perché il prodotto di una reazione serve per una reazione successiva.



Sono gli enzimi che regolano ognuna di queste reazioni. Essi l’uno dopo l’altro, in modo coordinato e con straordinaria efficienza, come in una catena di montaggio, trasformano il substrato fornendo il prodotto per il successivo enzima. Ogni prodotto di una reazione trova quindi subito un altro enzima per una successiva trasformazione e tutto deve funzionare alla perfezione fino ai prodotti finali.
Abbiamo detto che un enzima medio contiene circa 300 residui di amminoacidi che si ripiegano in una struttura globulare.
Ma come si è arrivati a molecole così grandi? E come si forma la struttura globulare?
Intorno al 1970 è stata avanzata l’ipotesi che le proteine fossero costituite da domini, cioè una sequenza di amminoacidi che si conserva nel corso dell’evoluzione. Nel 1974 Rossman ha individuato un dominio di circa 70 amminoacidi presente in molti enzimi e propose che tale dominio fosse addirittura di origine prebiotica. Oggi molti ritengono che i domini, in epoca prebiotica, fossero più piccoli e costituiti principalmente da ꭤ-eliche di circa 20 amminoacidi. Le grosse molecole proteiche avrebbero quindi avuto origine dall'aggregazione ed evoluzione di piccoli domini. La diversa disposizione di questi domini, o l’aggregazione di un nuovo dominio ad un enzima già esistente, genera una nuova funzione. Questo porta a concludere, come scrisse già Russel F. Doolittle nel 1985 in “Le Proteine” Le Scienze: «[…], così la grande maggioranza degli proteine deve essere derivata da un numero ristretto di archetipi».
La struttura globulare di una proteina enzimatica viene chiamata struttura terziaria. La struttura primaria è una lunga catena che indica la posizione di ciascun amminoacido nella molecola proteica. Se rimasse così l’enzima non avrebbe nessuna funzione e ben presto si degraderebbe. Prima che avvenga la degradazione, si forma la struttura secondaria dove parecchi amminoacidi si organizzano in eliche e foglietti. Infine si forma la struttura globulare, cioè la struttura terziaria. La struttura globulare di una proteina (fold) è conseguenza della struttura primaria, ma dalla conoscenza di quest’ultima non siamo in grado di risalire alla sua struttura terziaria. Nella seconda metà del secolo scorso, l’analisi ai raggi X ha dato un grosso contributo alla conoscenza della struttura terziaria. Si pensava che conoscendo la struttura si potesse risalire alla funzione. Infatti, nel 1985 Russell F. Doolittle (opera citata) scriveva: «Uno dei maggiori obiettivi delle proteine è stata la conoscenza approfondita della loro struttura in modo da riuscire a comprenderne la funzione». Oggi si conoscono migliaia di strutture proteiche ma da queste risalire alla funzione è impresa ardua. Cionondimeno, come descrive Peter M. Hoffmann in “Gli ingranaggi di Dio” 2014, moderne apparecchiature con sonde che operano alle nano scale, sofisticati microscopi ottici che riescono a rilevare la luce emessa da una singola molecola e le cosiddette pinze Laser, ci hanno permesso di comprendere in che modo gli enzimi raggiungono la struttura globulare e come funzionano.
Il processo che dalla struttura primaria porta alla struttura terziaria è sotto il controllo termodinamico, cioè le molecole tendono ad assumere una disposizione cui corrisponde un minimo di energia, lo stato più stabile. Insomma come un sasso che rotola giù da una collina fino a raggiungere il fondo valle. Ma se il sasso lungo la sua discesa incontra dei terrazzamenti rischia di fermarsi a metà strada. In una situazione simile si trovano gli enzimi quando dalla struttura primaria devono raggiungere la struttura globulare. Infatti una proteina globulare che comprende circa 150 amminoacidi potrebbe ripiegarsi in innumerevoli modi. Secondo Anfinsen sarebbe di 1045 il numero delle possibili conformazioni generate in modo casuale. Anche se la maggior parte di queste conformazioni sono impossibili, in una singola proteina enzimatica rimarrebbero comunque un numero enorme di conformazioni a bassa energia, dove la differenza di energia, tra le diverse conformazioni, è piccola. Come si vede dal diagramma (denominato diagramma del paesaggio energetico) il processo di ripiegamento (folding) dovrebbe condurre l’enzima ad avere il minimo di energia.
 
elaborazione da: Treccani

Un leggero cambiamento dell’ambiente circostante potrebbe bloccare l’enzima in un minimo intermedio, come il sasso bloccato a metà strada da un terrazzamento.
Cosa ha inventato l’evoluzione per evitare questo rischio? Le guide: Chaperoni e Chaperonine.
Per capire come funzionano i chaperoni Mike Williamson (opera citata) usa la seguente metafora: «Nel diciannovesimo secolo, una donna sola in pubblico era spesso accompagnata da un chaperone, una donna più vecchia o sposata che impediva all'amica di impegnarsi in contatti inappropriati con l’altro    sesso. Per analogia, una proteina chaperone agisce impedendo alle proteine non strutturate
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di impegnarsi in interazione indesiderate […]». Le chaperonine conducono invece la struttura primaria alla giusta conformazione. Esse hanno la forma a barile con all'interno una cavità dove la proteina assume la giusta conformazione e viene quindi liberata nell'ambiente.
Può succedere comunque che, malgrado tutto ciò, una proteina risulta ancora non strutturata correttamente, danneggiata, o non più utile alla cellula. Cosa ti inventa l’evoluzione? Il controllo qualità e riciclo: ubiquitina e proteasoma
 L’ubiquitina è una molecola proteica piccola, stabile e molto abbondante nelle cellule. L’ubiquitina riconosce e si lega alle proteine da degradare; le proteine risultano così etichettate. Da questo momento la sorte della proteina da degradare è segnata. Il complesso proteina ubiquitina viene riconosciuto da un altro complesso proteico: il proteasoma. Quest’ultimo è una vera e propria macchina molecolare: un digestore. 
HMB-Anderson

Anch'esso a forma di barile, appena viene a contatto con il complesso proteina-ubiquitina, stacca quest’ultima che ritorna in circolo nella cellula e ingoia la proteina da degradare. La degradazione porta a peptidi di circa sette residui che vengono rilasciati nella cellula per essere riutilizzati.
Non è noto quando sia iniziato, tra gli umani, il trasporto e lo scambio delle merci. La cellula lo aveva già inventato 3,5 miliardi di anni fa: microtubuli, chinesine, dineine, miosine e actina.
Che all'interno della cellula ci fosse un traffico intenso, come ci documenta Robert Day Allen in “Il microtubulo come motore molecolare intracellulare” Le Scienze 1987, era già noto fin dal XIX secolo ad opera di Joseph Leidy. Intorno alla metà degli anni sessanta del secolo scorso furono scoperti i microtubuli, lunghi canali del diametro di circa 25 nanometri e lunghi circa 100 000 nano metri (alle dimensioni accessibili ai nostri sensi è come se avessimo tubi del diametro di 1 cm e lunghi 4000 cm, 40 metri). I microtubuli sono costituiti da lunghe catene proteiche intrecciate: la tubulina. Si è subito compreso che i microtubuli avevano, all'interno della cellula, funzioni strutturali. Furono Allen e collaboratori, intorno al 1985, a scoprire che oltre alle funzioni strutturali i microtubuli erano, di fatto, le vie utilizzate dalle cellule per il trasporto di materiali con il contributo di due altre proteine: l’actina e la miosina. Più avanti si è scoperto che altre proteine, dineina e chinesina, partecipano al trasporto di materiali nella cellula.
I movimenti di chinesina e dineina sul microtubulo e la miosina che si muove su filamenti proteici di actina, vere e proprie macchine molecolari, sembrano proprio di tipo umanoide come raffigura l’immagine tratta dal saggio di Hoffmann già menzionato.
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La parte superiore è una vescicola che contiene i nutrienti, il corpo poggia su due piedi che si spostano microtubulo. Imita il nostro modo di camminare e tiene sempre un piede a terra cioè sul microtubulo. Per alzare un piede ha bisogno di energia, ATP. Una specie di mortaretto che esplode sotto il piede, lo stacca dal microtubulo e lo fa oscillare facendolo avanzare. Ma un’idea più chiara del suo movimento si può avere guardando i fantastici video presenti su Youtube, per esempio:
Questi video non sono animazioni immaginarie o elaborazioni al computer. I video sono stati certo elaborati ma reali. Essi, come ci conferma Hoffmann nel suo saggio, sono stati ottenuti con speciali strumenti che riescono a filmare il movimento di una singola molecola.
Hoffmann, dopo aver visto il video della miosina muoversi lungo i filamenti di actina come una piccola creatura a due gambe, scrive: «Possibile che la molecola sia viva? No, non nel vero senso del termine. Guardandola sfilare davanti a noi, possiamo renderci conto di come tutte queste macchine, interagendo in maniera controllata, possano creare un essere vivente. È qui, non c’è dubbio, che comincia la vita».
Infine, in modo molto sintetico, vogliamo descrivere altre tre tipi di macchine, le copiatrici molecolari: Elicasi, Polimerasi e RNApolimerasi
Il DNA è una molecola a doppia elica che contiene l’informazione necessarie per la sintesi delle proteine. Le due eliche sono tenute insieme da deboli legami (legami idrogeno). Poiché questi legami sono milioni, la molecola del DNA risulta molto stabile. Inoltre l’intera molecola, per difenderla da eventuali processi di degradazione, è avvolta da numerose proteine. Durante la divisione cellulare il DNA deve essere copiato e una copia trasferita alla nuova cellula. Per copiare il DNA bisogna innanzitutto separare le due eliche. La copiatura del DNA coinvolge un gran numero di
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proteine, ma il compito principale è svolto dall’elicasi. L’elicasi è una proteina ad anello simile a una stella a sei punte.  Essa si fa spazio tra le molecole proteiche che avvolgono il DNA e appena lo raggiunge si apre, lo avvolge al suo interno e si richiude.
Questa macchina molecolare apre, innanzitutto, la doppia elica e quindi come un paio di forbici si sposta lungo il DNA e separa le due eliche. Altre due proteine, polimerasi e topoisomerasi, sono
 
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incaricate della ricostruzione delle doppie eliche a partire dagli elementi costitutivi che si trovano nella cellula. Come motori perfettamente coordinati, man mano che l’elicasi taglia il DNA la polimerasi la segue e ricostituisce la doppia elica mentre un’altra polimerasi (la topoisomerasi) ricostituisce un’altra doppia elica nella direzione opposta. Alla fine avremo due copie identiche una per ogni cellula.  
L’RNApolimerasi è la proteina che trascrive un pezzo di DNA in RNA messaggero per la sintesi delle
 
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proteine. Essa si attacca al DNA e quindi si muove lungo la doppia elica fino a quando trova la sequenza giusta da cui iniziare: il  promotore. La RNA polimerasi è un macchina molecolare formidabile, fa tutto da sola. Appena trova il promotore questa polimerasi stacca le due eliche, muovendosi lungo i filamenti trascrive un pezzo di DNA (gene) in RNA messaggero, corregge eventuali errori e concluso il processo di copia ricuce il DNA e si allontana.   
Come abbiamo illustrato, nelle cellule operano catene di montaggio, guide, controllo qualità e riciclo, trasporto materiali e potremmo ancora aggiungere pompe proteiche ed elettromotori. Queste macchine molecolari sicuramente sono esistite da sempre. Esse erano certamente molto più rudimentali, ma dovevano essere lì fin dalle origini. Non è immaginabile l’origine della vita senza queste macchine molecolari.
Anche noi abbiamo inventato catene di montaggio, controllo qualità e riciclo, pompe, elettromotori e quanto segue, ma dietro le nostre invenzioni c’è sempre un pensiero, una mente.
E allora chi c’è dietro le invenzioni cellulari? Ovvero: ma la vita che cosa è?

                                                                                               Giovanni Occhipinti


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