giovedì 31 maggio 2018

DAL PROTO-ORGANISMO ALLA CELLULA. Seconda parte (la duplicazione cellulare)


Post n. 34


Origine della duplicazione cellulare, ovvero, perché gli organismi viventi fanno figli e più figli di quanti ne possano sopravvivere?
Nel post n. 13 abbiamo esaminato il problema ed eravamo arrivati alla conclusione che per gli organismi viventi dare origine ad una prole, e più prole di quanta ne possa sopravvivere, deve essere un istinto contenuto nella loro struttura biochimica. L’istinto a dare origine alla discendenza deve, quindi, necessariamente risalire alle proto-cellule e quindi all’origine della vita. Se le proto-cellule non avessero dato origine ad una discendenza, in un mondo ostile quale la Terra primordiale, sottoposte a infinite avversità casuali, esse prima o poi si sarebbero decomposte.
E allora: comparsa la prole appare la vita.
Ma come ha fatto la discendenza ad entrare nella struttura biochimica delle prime proto-cellule? Ovvero: come e perché ha avuto inizio la divisione proto-cellulare?
Abbandonata la cavità, l’ambiente che le proto-cellule hanno trovato ce lo descrive molto bene J. William Schopf, (post. N. 16): «Poiché la distanza Terra-Luna era minore, la Terra ruotava più rapidamente, le giornate erano più corte, le maree più imponenti e le tempeste più forti. I cieli erano di un caliginoso grigio acciaio, oscurati da tempeste di sabbia, nuvole vulcaniche e sottili detriti rocciosi sollevati dal bombardamento meteoritico. […] A causa della quasi totale assenza di ossigeno libero, l’ozono atmosferico (O3), capace di assorbire i raggi ultravioletti, era ancora scarso, e la superfice terrestre era immersa in una luce ultravioletta letale per le prime forme di vita. Gli organismi dovevano ancora imparare a fronteggiare questo ambiente ostile […]». Sicuramente, a causa di queste condizioni, la salinità, il pH, il contenuto di sostanze organiche contenute nell’argilla cambiavano continuamente e rendevano instabile l’equilibrio raggiunto dalla proto-cellula.   Inoltre, all’interno dei micro-ambienti delle masse argillose, forti micro-correnti di acqua potevano spazzarla via, la sopravvivenza della proto-cellula era a rischio.
Il caos dominava l’ambiente, era necessario risolvere il problema qui e ora.
Come abbiamo descritto altrove, l’omeostasi rimane una questione interna alla proto-cellula, essa non ha nessuna interazione diretta con l’ambiente esterno. Ma allora, come faceva l’omeostasi ad essere informata delle condizioni dell’ambiente circostante? Come abbiamo visto nel post n. 17 la membrana plasmatica, negli attuali organismi, è il centro dinamico della vita cellulare, dove le proteine della membrana svolgono un ruolo determinante anche nella divisione cellulare. Le proteine della membrana anche se ancora rudimentali dovevano già essere costituite da un testa a contatto con l’ambiente esterno, un corpo immerso nella membrana e una coda a contatto con l’ambiente interno. Sicuramente già allora, come oggi, furono tali proteine a informare l’omeostasi delle caotiche e letali condizioni dell’ambiente esterno e a spingere verso un cambiamento.
Ora, l’unico cambiamento possibile per la sopravvivenza della proto-cellula, era aumentare la propria massa, e l’omeostasi lo fa nell'unico modo in cui sa farlo: realizzare strutture e produrre entropia. L’omeostasi coopta nella proto-cellula amminoacidi, zuccheri, basi azotate dall'ambiente circostante e genera DNA, RNA e proteine. Ma questi polimeri generati da stampi e enzimi esistenti sono le copie dei polimeri già presenti che, per non dare origine a inutili sovrapposizioni di ruoli, l’omeostasi confina le copie in una parte della proto-cellula. L’aumento della massa sembra dare maggiore resistenza alla proto-cellula, ma causa un aumento del volume e quindi della superficie della membrana. Per la sopravvivenza della proto-cellula, l’omeostasi deve quindi sintetizzare anche proteine di membrana e quest’ultima prelevare dall'ambiente e associare, tramite le code idrofobiche, altre molecole di fosfolipidi per la sua crescita. L’aumento di volume della proto-cellula mette sotto tensione la membrana. Ora, è stato dimostrato sperimentalmente, che l’aggiunta di derivati lipidici o surfattanti a vescicole preesistenti provoca dapprima una crescita delle vescicole e poi la loro divisione spontanea. Possiamo allora immaginare che l’aumento della massa e del volume della proto-cellula abbia dato iniziato al distacco della parte contenente le copie.
  


Per non disperdere il contenuto della copia, la proto-cellula adatta alcuni enzimi a guidare la separazione e a tenersi incollata la parte che si è separata. Quindi i geni per la sintesi degli enzimi necessari alla divisione proto-cellulare sono già presenti nel DNA, e poiché sono fondamentali per la sopravvivenza della proto-cellula l’omeostasi li utilizzerà principalmente a questo scopo.
La proto-cellula è diventata cellula.
La comparsa, attraverso l’omeostasi, delle proteine per la divisione cellulare deve essere stata, all'interno delle due cellule, il segnale per la replicazione del DNA, che portò le cellule figlie ad avere lo stesso genoma.
Come per le vescicole cui vengono aggiunte derivati lipidici, la divisione proto-cellulare è stata termodinamicamente favorita. Per mantenere il loro equilibrio interno, per la propria sopravvivenza, le due cellule danno origine a quattro, a otto cellule e così via fino a creare una colonia. La colonia di cellule occupa il microambiente e dà origine ad una omeostasi dell’intera colonia che controlla i parametri del microambiente e mantiene al suo interno l’equilibrio termodinamico.
Le proteine di membrana delle cellule interne alla colonia, comunicano alla propria omeostasi il miglioramento dei parametri ambientali al loro intorno, e quindi una maggior probabilità di sopravvivenza. Ma le proteine di membrana delle cellule esterne della colonia comunicano il rischio della loro posizione e alcune vengono addirittura spazzate via o distrutte dall'ambiente circostante ostile. L’omeostasi della colonia, deputata alla sopravvivenza delle cellule, preleva dall'ambiente il materiale necessario per la divisione cellulare. Tale divisione deve, però, dare origine a più cellule del necessario, cioè più individui di quanti ne possano sopravvivere perché molte di esse non sopravvivranno alle avversità dell’ambiente.
La singola cellula attraverso l’omeostasi mantiene l’equilibrio al suo interno, l’omeostasi della colonia di cellule e successivamente l’omeostasi di gruppo o della specie mantiene in equilibrio l’ambiente circostante.
Ma se la divisione cellulare è già contenuta nel DNA, chi decide di attivare i geni per produrre prole e più prole di quanti ne possano sopravvivere?
È l’omeostasi che, deputata alla sopravvivenza, per mantenere in equilibrio l’ambiente circostante, attiva i geni e definisce il numero dei discendenti degli organismi viventi, in funzione del nutrimento a disposizione, dell’omeostasi della colonia, del gruppo o della specie e delle condizioni ambientali o più in generale in funzione dell’omeostasi dell’ecosistema. Se queste condizioni non cambiano il numero dei discendenti così definito può rimanere pressappoco invariato per migliaia o milioni di anni.
Tutti gli organismi viventi derivano da queste cellule primordiali e quindi tutti gli organismi viventi contengono nella loro struttura biochimica, nel loro genoma, il tratto ancestrale della discendenza ma devono misurarsi con l’ambiente circostante (o se volete: la prole è genetica, quanta prole è epigenetica).
E allora perché nel genoma degli organismi viventi è contenuto l’istinto alla discendenza? Per mantenere in equilibrio l’ambiente circostante necessario alla propria sopravvivenza. Esplicitamente, sotto il controllo di un’omeostasi di gruppo o della specie e delle condizioni ambientali, gli organismi viventi per sopravvivere fanno figli e i figli per la propria sopravvivenza continuano a fare figli.
Nella specie umana l’evoluzione culturale ha apportato qualche variazione al tema, ma non più di tanto. Immaginate una città che chiameremo A e una sua copia perfetta che chiameremo B. Ora, mentre nella prima città si continua a fare figli e molti abitanti possono raggiungere una veneranda età, nella seconda città gli abitanti, per esercitare un risparmio, decidono di non fare più figli. Cosa accadrà nella città B. Si rompe l’equilibrio ambientale. Per fare qualche esempio, guardando solo gli aspetti economici, negli ospedali si chiudono i reparti di neo-natalità, il commercio dei prodotti per l’infanzia scomparirà e gli asili nido chiuderanno. Gli abitanti presto lotteranno per accaparrarsi le risorse disponibili, si scatenerà una guerra civile e nessuno raggiungerà venerande età perché la città non sopravvivrà più di qualche anno.
Riprodursi per la propria sopravvivenza.

 L’unitarietà della vita

 Abbiamo detto che i proto-organismi formati in zone vulcaniche erano diversi perché diversi erano gli amminoacidi costituenti le proteine. Ma allora anche le cellule formate in prossimità di quelle aree essere diverse. Queste cellule dovevano quindi sviluppare vie metaboliche diverse.

Ma allora, perché la vita è unitaria?

Il DNA (acido desossiribonucleico) è la molecola che contiene l’informazione genetica. È scritto nel DNA se un organismo sarà un essere umano, un albero o un microorganismo. Nel DNA di tutti gli organismi, sono stati individuati decine di migliaia di segmenti chiamati geni. Sono geni, o gruppi di geni, che stabiliscono il colore della pelle, il numero della dita di una mano e così via. Ogni organismo vivente trasmette sempre il proprio patrimonio genetico a ai discendenti. Tale trasmissione viene chiamata verticale e si riteneva che fosse I’ unico modo di trasmissione genetica tra gli organismi viventi. Negli anni 80 del secolo scorso, venne scoperta, nel mondo batterico e fra eucarioti monocellulari, la trasmissione laterale detta anche trasmissione orizzontale: i geni non si trasmettono soltanto da un organismo ai propri discendenti ma anche tra cellule che non presentano alcun legame di parentela.

Partendo dall’ipotesi che la vita ha avuto tante origini, tutte quasi ugual i perché quasi uguali erano le condizioni chimico-fisiche del nostro pianeta, è probabile che colonie di cellule simili in un determinato ambiente abbiano dato origine a una popolazione. Nei diversi ambienti le varie popolazioni svilupparono inizialmente proprie vie metaboliche. Le cellule che si trovavano alla periferia di ogni popolazione prelevavano iI loro nutrimento dall’ambiente circostante.

Ma quando il nutrimento ha iniziato a scarseggiare non poteva essere trascurato i I nutrimento contenuto nelle cellule morte di altre popolazioni. Queste ultime però contenevano sicuramente sostanze e processi metabolici sconosciuti. Così le cellule periferiche per poter utilizzare appieno il nutrimento di cellule di altre popolazioni si sono impadronite anche dei geni dei loro sistemi metabolici. Tali geni dalla periferia vennero poi trasmesse a tutta la popolazione. L’insieme delle popolazioni deve aver dato origine ad una comunità di cellule primitive che attraverso il continuo scambio di geni portò all’ unitarietà della vita. Quando il nutrimento prebiotico scomparve del tutto alcune popolazioni di cellule vicine divennero predatori nutrendosi delle popolazioni di cellule vicine e così l’unitarietà della vita fu completata. Da questa comunità di cellule primitive emersero infine i Batteri, gli Eucarioti e gli Archei, 



Fu un’esigenza di sopravvivenza già dalle origini a far si che il pesce grande mangia iI pesce piccolo, l’aquila il serpente e noi mangiamo tutti. L‘unitarietà della vita potrebbe quindi dipendere dalla trasmissione laterale, cioè dagli scambi genetici tra microorganismi senza vincolo di parentela. Senza la trasmissione laterale ogni popolazione avrebbe a sviluppare ciascuno i propri processi metabolici, la vita non sarebbe stata un processo unitario e difficilmente avrebbe potuto evolversi. 



                                                                                    Giovanni Occhipinti