lunedì 31 marzo 2014

ORGANISMI VIVENTI: CORPO, CERVELLO, MENTE. Parte prima

Post n. 14

Il dibattito moderno sul problema mente-corpo inizia nel 17° secolo con Cartesio. Nei quattro secoli trascorsi, molti  filosofi e illustri scienziati hanno dato il loro contributo all’argomento, e il dibattito continua.
In “Polvere vitale”1995, Christian De Duve scrive: «Scienza e filosofia sono discipline così difficili che è praticamente impossibile per una persona avere una buona preparazione in entrambe, salvo che in un modo libresco, da osservatore esterno, che è peraltro solo un surrogato modesto di una familiarità profonda con la materia».
Lasciamo continuare il dibattito a filosofi e illustri scienziati.
Ma allora, perché un articolo su questo argomento?
In genere, quando si tratta il problema dell’origine della vita, si prende in considerazione come riferimento la vita come è attualmente, il corpo dalla parte dell’invisibile cioè il livello molecolare: acidi nucleici, proteine, lipidi. Guardare gli organismi viventi dal lato del visibile, cioè nei loro comportamenti, potrebbe darci qualche indizio utile a comprenderne la loro origine.
Prima di iniziare è però  necessario un chiarimento.
Nel linguaggio quotidiano con la parola Mente si intende principalmente: memoria, direzione dei processi intellettivi e pratici, coscienza. Tale definizione, anche se nella pratica quotidiana è riferita alla mente come prodotto del cervello umano rimane, tuttavia, una definizione scientificamente aperta.
Con l’avvento delle neuroscienze la definizione di Mente cambia e diventa un’attività di cellule speciali: i neuroni. E infatti nello stesso saggio  De Duve aggiunge: «Non c’è mente senza cervello[…]». Ora, poiché le diverse funzioni del fegato e del cervello sono dovute ai diversi geni contenuti (attivati) nei due organi,  la questione diventa genetica. Così Gary Marcus, in “La nascita della mente”2008, ci informa che: «È senz’altro possibile che 5000 geni diversi contribuiscono a formare l’intelligenza umana e che solo alcune centinaia di questi varino in modi che contribuiscono alle differenze tra una persona e l’altra. […] I valori di ereditabilità ci dicono solo come le differenze in quei pochi geni siano correlate alle differenze in valori come quelle del QI». E così, quando saranno identificati il gene o i geni che determinano il QI (Quoziente di intelligenza), saremo in grado di stabilire, finalmente, chi tra gli umani  possiede veramente una Mente e chi no. E io speriamo che me la cavo.
Blindata così la definizione di Mente è diventata un Dogma che blocca la ricerca e crea, come vedremo, incredibili assurdità. 
Nel 2005 Giorgio Vallortigara pubblica il risultato delle sue ricerche compendiate anche nel saggio “La mente che scodinzola” 2011. Egli evidenzia che : «Se quello che conta per gli organismi viventi è sopravvivere e riprodursi, la selezione naturale deve aver inventato (come in effetti ha fatto) una varietà di trucchi e di scorciatoie ai fini del comportamento più adeguato in un certo ambiente».
Nel post n.13 “Darwin, noi e il problema dell’origine della vita” abbiamo evidenziato come l’istinto alla riproduzione sembra contenuto all’interno della stessa struttura biologica che ha dato origine alla vita.
Ma per la sopravvivenza, quali trucchi e quali scorciatoie ha inventato la selezione naturale per un comportamento più adeguato in un certo ambiente? 
Vallortigara sintetizza il risultato delle sue ricerche e scrive: «In questi anni abbiamo imparato molto sulla mente degli animali non umani. Gli animali sembrano dotati di un equipaggiamento cognitivo di base per la sopravvivenza, che è poi lo stesso posseduto dalla nostra specie, un set di moduli specializzati che consente di interagire con gli oggetti, sia fisici (inanimati) sia sociali (animali), di collocarli nello spazio e nel tempo, di enumerarli e di fare inferenze sulle loro proprietà e sui loro comportamenti e in certe circostanze, di usarli come strumenti». Inoltre: « I risultati suggeriscono quindi che, oltre agli essere umani, alcuni altri animali potrebbero avere una rappresentazione mentale del futuro».
Ma solo gli animali presentano questo set di moduli specializzati per la sopravvivenza? E se lo presentano altri organismi viventi, possiamo o no chiamarlo “equipaggiamento cognitivo di base”?

In “L’origine delle teorie” (compendiata in: Quattro saggi sulla scienza 2012, Le Scienze), Enrico Bellone dopo aver evidenziato che «Non c’è dubbio che ci adattiamo più o meno bene alle nostre nicchie domestiche proprio perché sappiamo numerare le cose che ci circondano, stimare le superfici e i volumi, ragionare in modo che se succede una certa cosa allora può verificarsi un dato evento». Più avanti afferma: «È difficilmente confutabile, ormai da decenni che gli organismi viventi siano in grado di comunicare tra loro, e che l’abilità comunicativa richieda forme di intelligenza. Così accade per esempio con le galline. Quando un cane si sta avvicinando, un galletto emette una sequenza specifica di suoni. La sequenza è diversa se, invece, si profila un falco. Altri suoni, infine, vengono propagati quando il nostro galletto trova del cibo appetibile, e altri ancora quando il cibo è meno interessante. E le circostanti galline assumono comportamenti diversi quando ascoltano questi variabili stimoli acustici: li assumono anche se gli stimoli sono propagati in aria non da un vigilante galletto, ma da un altoparlante. […] Esplorando queste situazioni, si dimostra che il galletto non agisce come una macchina (o come un recipiente passivo al cui interno uno stimolo causa una reazione), ma come un organismo dotato di programma: “Quando trovi del cibo buono, se c’è in giro una gallina, allora emetti i richiami”». Egli riporta anche l’incredibile abilità della nocciolaia: «Altri organismi viventi devono, per sopravvivere, soddisfare bisogni di orientamento ambientale e fabbricare mappe. È di un certo interesse, a questo proposito, il rapporto osservabile 

asiagowebcam.com

 tra un volatile che si chiama “nocciolaia” e le zone in cui le nocciolaie vivono. Questo uccellino, come ci spiega Giorgio Vallortigara, si nutre prevalentemente di semi di conifere. In previsione dell’inverno raccoglie in media più di 30000 semi; non in una sola volta ma in gruppi di cinque e sei. E deposita i singoli gruppi in vari nascondigli: all’incirca, 5500 nascondigli. Con la cattiva stagione, poi, la nocciolaia torna ai nascondigli e si nutre».

Fin qui in linea con Christian De Duve “ non c’è mente senza cervello”.
Ma Bellone va oltre.  Dopo aver argomentato sulla teoria della conoscenza umana di Popper rivolge la sua attenzione anche alle piante: «Le vediamo, ad esempio, perdere il fogliame. In genere sottovalutiamo il fatto che i mutamenti osservabili in questi organismi viventi precedono l’inverno vero e proprio. In tal modo ci sfugge un aspetto importante: le piante prevedono una caduta della temperatura e una diminuzione spiccata nell’intensità della luce di cui hanno bisogno per vivere al meglio. La previsione è notevolmente efficace, e funziona anche perché le variazioni ambientali sono periodiche: gli inverni si assomigliano di anno in anno, e ciò induce delle aspettative. Per elaborare una previsione è necessario disporre dei sensori che misurino, ad esempio la tendenza a decrescere della temperatura della nicchia. Le nostre piante pur non avendo reti di neuroni, sentono il sopraggiungere di un clima rigido e si comportano come se valutassero i cambiamenti percepiti entro schemi del tipo “se…allora”: raffinatissimi processi interni ai loro corpi ricevono stimoli esterni, li traducono in linguaggi incorporati e predispongono le opportune reazioni.
In altre occasioni ho già insistito su argomenti consimili. Particolarmente efficace da un punto di vista didattico è il caso esemplare di una patata selvatica, il Solanum berthaulthii, che è spesso attaccato da certi afidi. Questi ultimi sono a loro volta predati da altri organismi e quando l’attacco si profila, emettono e diffondono nell’ambiente circostante delle molecole molto particolari che sono percepite da altri afidi e interpretate come un segnale di allarme che suscita una reazione di fuga. Ebbene, le patate, aggredite dagli afidi, producono e diffondono il medesimo messaggio molecolare, cosi da dissuadere gli attaccanti per mezzo di una menzogna linguisticamente comunicata con il sotterfugio consistente nella capacità di imitare il linguaggio altrui.
Sarebbe imperdonabile, anche in sede di teoria della conoscenza, porre in sordina questo stato di cose. I vegetali non hanno reti di neuroni, o cervelli che dir si voglia. E sarebbe stravagante concedere alle piante un repertorio di stati mentali o una coscienza. Di fatto, però, i vegetali hanno linguaggi, i cui segni di base sono ioni e molecole, grazie ai quali trasferiscono informazioni sia al proprio interno, sia all’esterno, così  da stabilire un rapporto con altri vegetali».

Decisamente in una nuova dimensione ci portano Stefano Mancuso e Alessandra Viola in “Verde brillante, 2013. Gli autori, illustrando anche risultati di ricerche, dopo aver evidenziato come le piante non solo sono in possesso dei nostri stessi sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto), certamente sviluppati secondo la natura vegetale e non umana, ma ne posseggono almeno altri quindici, argomentano: «Come sappiamo bene, infatti, ogni pianta registra ininterrottamente un gran numero di parametri ambientali (luce, umidità, gradienti chimici, presenza di altre piante o animali, campi elettromagnetici, gravità ecc.) e in base a questi dati è chiamata a prendere decisioni che riguardano la ricerca di alimenti, la competizione, la difesa, i rapporti con le altre piante e gli animali: un’attività difficile da immaginare senza 

fioriefoglie,tgcom24.it

  far ricorso al concetto di intelligenza!» Gli autori trattano anche le piante carnivore, che Darwin chiamava piante insettivore e di cui se ne conoscono ormai circa seicento. Essi evidenziano il processo evolutivo che ha portato le piante a nutrirsi anche di carne e le loro sofisticate strategie per catturare le prede. E più avanti, dopo aver evidenziato che le piante non hanno cervello almeno come lo intendiamo noi ed essersi posta la domanda se il cervello è davvero  la sola sede di “produzione” dell’intelligenza affermano: «Nelle piante le funzioni cerebrali non sono separate da quelle corporee, ma compresenti in ogni singola cellula: un vero e proprio esempio vivente di ciò che gli studiosi di Intelligenza Artificiale chiamano embodied agent, ovvero un agente intelligente che interagisce con il mondo attraverso il proprio corpo fisico».

S. Mancuso e A. Viola dopo aver evidenziato come Darwin fosse stato anche uno straordinario botanico riportano quanto egli scrisse in proposito «Non è un’esagerazione dire che la punta della radice, così dotata di [sensitività] e che ha il potere di dirigere il movimento delle regioni adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore, il cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo riceve impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti».
Dunque, le piante non hanno cervello, almeno come noi lo intendiamo. Però, così come gli animali sembrano dotati di un equipaggiamento cognitivo di base per la sopravvivenza, certamente orientato verso la natura animale, non si può negare che anche le piante posseggano un equipaggiamento cognitivo di base per la sopravvivenza, orientato in questo caso verso la natura vegetale.
Tutto ciò si scontra con la visione dogmatica delle neuroscienze. Infatti Antonio Damasio nel saggio ”Il sé viene alla mente”2012, nel definire il quadro concettuale delle sue ipotesi afferma: «Gli organismi generano la mente grazie all’attività di cellule speciali-i neuroni-[…]». E in riferimento al successo dei nostri antenati più remoti egli continua: «Che cosa aprì la strada a creature complesse come noi? Ai fini della nostra comparsa, un ingrediente importante sembra essere stato il movimento: qualcosa di cui le piante non dispongono, ma di cui noi ed alcuni altri animali siamo invece dotati. Le piante possono avere dei tropismi: alcune sono in grado di orientarsi cercando il sole o evitando l’ombra; e alcune, come la carnivora dionea, riescono a catturare insetti distratti. Nessuna pianta, però può sradicarsi e andarsene a cercare un ambiente migliore da un’altra parte: è il giardiniere che deve farlo per lei. La tragedia delle piante, che peraltro esse ignorano , è che le loro cellule, circondate da una parete rigida come un corsetto, non potranno mai modificare la propria forma in modo sufficiente per diventare neuroni. Le piante non hanno cellule nervose: quindi non avranno mai una mente».
Però, Antonio Damasio, come abbiamo visto nel post precedente (già citato), attraverso l’omeostasi, alla singola cellula eucariote attribuisce concetti di desideri, volontà , intenzioni e scopi che noi associamo alla mente umana e argomenta: «Si è infatti constatato che creature viventi del tutto prive di cervello, persino singole cellule, presentano comportamenti apparentemente intelligenti e diretti a uno scopo: anche questo è un fatto scarsamente apprezzato».
In verità queste opinioni sul comportamento delle singole cellule li aveva già espresse Konrad Lorenz in “Etologia”. Nel capitolo “Meccanismi che elaborano un’informazione momentanea”, in riferimento al comportamento ameboide egli scrive: «Nel suo ambiente naturale cioè in un liquido di coltura in cui essa può vivere permanentemente l’ameba appare straordinariamente adattabile nel suo comportamento, anzi addirittura intelligente. Essa si sottrae agli effetti dannosi per mezzo di una fuga “di paura”, si avvicina a stimoli favorevoli, ingloba e mangia “avidamente” un oggetto adatto. Se fosse grande come un cane, dice Jennings, uno dei migliori conoscitori di protozoi, non si esiterebbe ad attribuirle un’esperienza soggettiva».
Dunque le amebe sono capaci di ragionamenti, di inferenze logiche. Se percepiscono la presenza di cibo, allora si dirigono nella direzione del nutrimento; se l’ambiente è ostile, allora si allontano.
Per sua sfortuna però l’ameba non è grande come un cane e allora la sua apparente intelligenza è solo una questione meccanica. Essa, come ci spiega Lorenz, è dovuta alla diversa capacità dell’ectoplasma a reagire selettivamente a due diverse categorie di stimoli.
Nello stesso capitolo Lorenz scrive: «Pare che non si conoscano unicellulari capaci di locomozione ma mancanti di orientamento nello spazio», e che i parameci all’interno di una “goccia sospesa” presentano reazioni fobiche. Non è chiaro come tutto ciò possa essere spiegato come una reazione causata da uno stimolo.
Però Jennings ha fatto anche un esperimento che riguarda lo Stentor, che Lorenz non ha ritenuto di prendere in considerazione.

Citare un autore non implica condividerne le idee, dal saggio di Rupert 

www.microscopy-uk.org.uk

 Sheldrake “Le illusioni della scienza”2013, è stato tratto questo esempio: «Ogni Stentor è una cellula a forma di tromba, coperta da file di sottili peli vibratili, detti ciglia.[…] Queste cellule sono fissate alla loro base grazie a un “piede” e la parte inferiore della cellula è circondata da un tubo simile a muco. Se la superfice a cui è fissata viene leggermente scossa, Stentor si contrae rapidamente all’interno del tubo. Se non succede altro, dopo circa un mezzo minuto si estende di nuovo e le ciglia riprendono le loro attività. Se si ripete lo stimolo, l’animale non si contrae più, ma continua le sue attività normali: questo comportamento non è risultato di un affaticamento, perché la cellula reagisce contraendosi se si presenta un nuovo stimolo, come l’essere toccata (H. S. Jennings). Le membrane cellulari di Stentor sono percorse da una carica elettrica, come le cellule nervose. Quando sono stimolate, un potenziale d’azione si propaga sulla superfice della cellula, molto simile ad un impulso nervoso e questo porta la cellula a contrarsi (D. C. Wood). Quando si abitua, i recettori sulla membrane cellulare diventano meno sensibili alla stimolazione meccanica e il potenziale d’azione non viene innescato (D. C. Wood).  Poiché lo Stentor è formato da un’unica cellula, la sua memoria non può essere spiegata in funzioni di cambiamenti nelle terminazioni nervose, o sinapsi, poiché non ne ha alcuna».

Questo tipo di comportamento viene chiamato abituazione, cioè assuefazione agli stimoli ed è presente negli animali e anche nell’uomo. Se una persona va ad abitare in prossimità di una ferrovia o di una strada con molto traffico, all’inizio viene disturbato ma in seguito si abitua e non ci fa più caso. È una forma fondamentale di memoria perché ci permette di adattarci all’ambiente.
Insomma Stentor ha una memoria. Stentor ricorda.
Ci troviamo quindi di fronte a organismi unicellulari che sanno orientarsi nello spazio,  presentano ragionamenti, scopi, intenzioni, volontà, desideri, ricordi, comportamenti “apparentemente” intelligenti , cioè un equipaggiamento cognitivo di base, concetti tipici della nostra mente; organismi unicellulari che sanno badare a se stessi. Un equipaggiamento cognitivo molto più semplificato di quello delle piante e degli animali, ma è quanto basta per la loro sopravvivenza; ma Stentor non ha neuroni!
E allora, da dove viene questo equipaggiamento cognitivo di base?
Christian de Duve nel capitolo “Il funzionamento della mente” (opera citata) argomenta: «Nell’universo noto non c’è un mistero più grande di quello della mente umana, eccezion fatta per il mistero dell’universo stesso. Nata dal cervello, da cui dipende in modo critico in ogni istante […], la mente è senza alcun dubbio il prodotto dei neuroni. […] È la mente a generare i nostri pensieri, ragionamenti, intuizioni, riflessioni, invenzioni, disegni, credenze, dubbi, immaginazioni, fantasie, desideri, intenzioni, struggimenti, frustrazioni, sogni e incubi. Essa suscita i nostri ricordi dal passato e plasma i nostri piani per il futuro; pesa, decide e comanda». De Duve ha dimenticato la “volontà” tanto cara a Damasio.
Ma se gli organismi unicellulari e le piante non hanno neuroni, allora il problema è: da dove vengono, in questi organismi, i concetti tipici della nostra mente? E poi, in realtà, sulla mente abbiamo certezze?
Christian De Duve, dopo aver citato alcuni scienziati e filosofi che si occupano del problema della mente, continua: «Queste poche citazioni dovrebbero chiarire che le ricerche sulla mente sono ancora in uno stato embrionale. Questa situazione non dipende dalla mancanza di studi. In anni recenti sono apparsi decine di libri sull’argomento, scritti di neuroscienziati, linguisti, specialisti dei computer e filosofi, per non contare i teologi. Purtroppo le tesi sostenute sono quasi altrettante numerose degli autori, anche perché l’ideologia svolge un ruolo più importante nella psicologia umana che in altri ambiti scientifici».
Tradotto, nessuno sa come il cervello dia origine alla mente. Nessuno sa se esiste solo la mente cosciente degli umani e se esistono anche menti coscienti in relazione al grado di evoluzione di un organismo in un determinato ambiente. Nessuno ha mai dimostrato che è necessario un cervello per dare origine ad una mente. Ora, il saggio di De Duve è del 1995 e non sembra che negli ultimi due decenni questi problemi siano stati risolti. Certamente si potrebbe attendere che illustri scienziati e filosofi risolvano la questione; ma, se come scrive De Duve l’ideologia svolge un ruolo importante in queste ricerche, si rischia un’attesa di altri quattro secoli.
Intanto noi abbiamo un problema e nell’attesa potremmo procurarci, attraverso un escamotage, una spiegazione semplice e, giusto per non irritare nessuno, anche temporanea.
Senza voler entrare nel campo filosofico, di cui non abbiamo né le competenze né la voglia,  partiamo solo dai fatti, dalla constatazione che concetti tipici della nostra mente sono posseduti anche da organismi che non hanno cervello.
Allora il problema è: cosa genera negli organismi unicellulari eucarioti, ragionamenti, scopi, intenzioni, volontà, desideri, ricordi, comportamenti “apparentemente” intelligenti e la capacità di sapersi orientare nello spazio, concetti tipici della nostra mente? 
Shimon Edelmann in “La felicità della ricerca, 2013”, dopo aver argomentato sull’idea che la cognizione è calcolo scrive: «Fra le descrizioni più sintetiche della natura della mente umana, la mia preferita è quella di Marvin Minsk, matematico e informatico: “La mente è ciò che fa il cervello”. Avendo dato uno sguardo ai principi di quello che è la mente (un fascio di calcoli al servizio della previsione) e a quello che fa il cervello (eseguire quei calcoli), possiamo apprezzare la battuta di Minsk, ma anche renderci conto che si presta a un’interpretazione molto affascinante: se quello che il cervello fa può essere fatto con altri mezzi, allora può esistere una mente anche senza che ci sia bisogno di un cervello. Per riconciliarci con questa affermazione tremenda, ma vera, […]». E più avanti : «Dato che gli stessi calcoli possono essere fatti con mezzi diversi, l’esistenza di menti non biologiche è una concreta possibilità».
Quindi, vediamo di capirci qualcosa: noi siamo disposti a dare ai nostri manufatti la capacità di possedere una mente, ma rifiutiamo di dare una mente non solo agli organismi unicellulare ma anche alle piante. Nessun computer può mai eguagliare le capacità di uno Stentor ma quest’ultimo viene considerato un insignificante microorganismo mentre il computer ha lo status di “cervello elettronico”. Eppure questi microorganismi presentano scopi, intenzioni, volontà, desideri, ricordi, ragionamenti, comportamenti “apparentemente” intelligenti e sanno orientarsi nello spazio, cioè un equipaggiamento cognitivo di base, concetti tipici della nostra mente che nessun computer possiede. Ingabbiati da dogma e ideologie, per i microrganismi utilizziamo  espressioni come: schemi del tipo “se…allora”, oppure concetti come: ragionamenti, linguaggi e intelligenza apparente, ma riduciamo tutto a meccanicismo e se non si trova si suppone o si tace; però siamo disposti ad accettare menti non biologiche.
Noi non sappiamo se Stentor e le piante hanno una loro coscienza, ma ci chiediamo: come può  sopravvivere un organismo se, a modo suo, non è  consapevole del mondo che lo circonda?
Stentor e le piante hanno: memoria, dirigono e risolvono processi intellettivi e pratici e forse hanno anche una coscienza. Stentor e le piante sono tutto questo.
E allora, liberiamoci dalle gabbie, e parafrasando Shimon Edelmann: se quello che il cervello fa può essere fatto con altri mezzi allora gli organismi unicellulari eucarioti e tutti gli organismi pluricellulari non dotati di cervello sono in possesso di una mente.
Quali siano questi “altri mezzi” non lo sappiamo ancora, ma ad ognuno la sua mente semplice o complessa, giusto quanto basta per la loro sopravvivenza.
E allora, Stentor e le piante hanno una mente.
Quindi, partendo dagli organismi unicellulari eucarioti e proseguendo dai pluricellulari fino agli organismi superiori come piante e animali, sembra che non c’è vita senza un equipaggiamento cognitivo di base, non c’è sopravvivenza senza una mente. Nello scenario della vita, la  mente appare anche senza che ci sia bisogno di un cervello.
La mente deve essere stata una proprietà emergente, nel senso dato all’emergenza da Ernst Mayr in “L’unicità della biologia”2005: «La comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi complessi». «Essa non racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica». «Spesso nei sistemi complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si possono prevedere) neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
Dunque la mente è già presente negli organismi unicellulari eucarioti, e negli organismi più semplici? E poi, quando appare la mente nello scenario della vita.
 
 
                                                                                                  Giovanni Occhipinti
 
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