Post n. 14
In “Polvere vitale”1995, Christian De
Duve scrive: «Scienza e filosofia sono discipline così difficili che è
praticamente impossibile per una persona avere una buona preparazione in
entrambe, salvo che in un modo libresco, da osservatore esterno, che è peraltro
solo un surrogato modesto di una familiarità profonda con la materia».
Lasciamo continuare il dibattito a
filosofi e illustri scienziati.
Ma allora, perché un articolo su questo
argomento?
In genere, quando si tratta il problema
dell’origine della vita, si prende in considerazione come riferimento la vita
come è attualmente, il corpo dalla parte dell’invisibile cioè il livello
molecolare: acidi nucleici, proteine, lipidi.
Guardare gli organismi viventi dal lato del visibile, cioè nei loro
comportamenti, potrebbe darci qualche indizio utile a comprenderne la loro
origine.
Prima di iniziare è però necessario un chiarimento.
Nel linguaggio quotidiano con la parola
Mente si intende principalmente: memoria, direzione dei processi intellettivi e
pratici, coscienza. Tale definizione, anche se nella pratica quotidiana è
riferita alla mente come prodotto del cervello umano rimane, tuttavia, una
definizione scientificamente aperta.
Con l’avvento delle neuroscienze la
definizione di Mente cambia e diventa un’attività di cellule speciali: i
neuroni. E infatti nello stesso saggio
De Duve aggiunge: «Non c’è mente senza cervello[…]». Ora, poiché le
diverse funzioni del fegato e del cervello sono dovute ai diversi geni
contenuti (attivati) nei due organi, la
questione diventa genetica. Così Gary Marcus, in
“La nascita della mente”2008, ci informa che: «È senz’altro possibile che 5000
geni diversi contribuiscono a formare l’intelligenza umana e che solo alcune
centinaia di questi varino in modi che contribuiscono alle differenze tra una
persona e l’altra. […] I valori di ereditabilità ci dicono solo come le
differenze in quei pochi geni siano correlate alle differenze in valori come
quelle del QI». E così, quando saranno identificati il
gene o i geni che determinano il QI (Quoziente di intelligenza), saremo in
grado di stabilire, finalmente, chi tra gli umani possiede veramente una Mente e chi no. E io
speriamo che me la cavo.
Blindata così la definizione di Mente è
diventata un Dogma che blocca la ricerca e crea, come vedremo, incredibili
assurdità.
Nel 2005 Giorgio Vallortigara pubblica
il risultato delle sue ricerche compendiate anche nel saggio “La mente che
scodinzola” 2011. Egli evidenzia che : «Se quello che conta per gli organismi
viventi è sopravvivere e riprodursi, la selezione naturale deve aver inventato
(come in effetti ha fatto) una varietà di trucchi e di scorciatoie ai fini del
comportamento più adeguato in un certo ambiente».
Nel post n.13 “Darwin, noi e il problema
dell’origine della vita” abbiamo evidenziato come l’istinto alla riproduzione
sembra contenuto all’interno della stessa struttura biologica che ha dato
origine alla vita.
Ma per la sopravvivenza, quali trucchi e
quali scorciatoie ha inventato la selezione naturale per un comportamento più
adeguato in un certo ambiente?
Vallortigara sintetizza il risultato
delle sue ricerche e scrive: «In questi anni abbiamo imparato molto sulla mente
degli animali non umani. Gli animali sembrano dotati di un equipaggiamento
cognitivo di base per la sopravvivenza, che è poi lo stesso posseduto dalla
nostra specie, un set di moduli specializzati che consente di interagire con
gli oggetti, sia fisici (inanimati) sia sociali (animali), di collocarli nello
spazio e nel tempo, di enumerarli e di fare inferenze sulle loro proprietà e
sui loro comportamenti e in certe circostanze, di usarli come strumenti».
Inoltre: « I risultati suggeriscono quindi che, oltre agli essere umani, alcuni
altri animali potrebbero avere una rappresentazione mentale del futuro».
Ma solo gli animali presentano questo
set di moduli specializzati per la sopravvivenza? E se lo presentano altri
organismi viventi, possiamo o no chiamarlo “equipaggiamento cognitivo di base”?
In “L’origine delle teorie” (compendiata
in: Quattro saggi sulla scienza 2012, Le Scienze), Enrico Bellone dopo aver
evidenziato che «Non c’è dubbio che ci adattiamo più o meno bene alle nostre
nicchie domestiche proprio perché sappiamo numerare le cose che ci circondano,
stimare le superfici e i volumi, ragionare in modo che se succede una certa cosa allora
può verificarsi un dato evento». Più avanti afferma: «È difficilmente
confutabile, ormai da decenni che gli organismi viventi siano in grado di
comunicare tra loro, e che l’abilità comunicativa richieda forme di
intelligenza. Così accade per esempio con le galline. Quando un cane si sta
avvicinando, un galletto emette una sequenza specifica di suoni. La sequenza è
diversa se, invece, si profila un falco. Altri suoni, infine, vengono propagati
quando il nostro galletto trova del cibo appetibile, e altri ancora quando il
cibo è meno interessante. E le circostanti galline assumono comportamenti
diversi quando ascoltano questi variabili stimoli acustici: li assumono anche
se gli stimoli sono propagati in aria non da un vigilante galletto, ma da un
altoparlante. […] Esplorando queste situazioni, si dimostra che il galletto non
agisce come una macchina (o come un recipiente passivo al cui interno uno
stimolo causa una reazione), ma come un organismo dotato di programma: “Quando
trovi del cibo buono, se c’è in giro
una gallina, allora emetti i
richiami”». Egli riporta anche l’incredibile abilità della nocciolaia: «Altri
organismi viventi devono, per sopravvivere, soddisfare bisogni di orientamento
ambientale e fabbricare mappe. È di un certo interesse, a questo proposito, il
rapporto osservabile
asiagowebcam.com
|
tra un volatile che si chiama “nocciolaia” e le zone in
cui le nocciolaie vivono. Questo uccellino, come ci spiega Giorgio
Vallortigara, si nutre prevalentemente di semi di conifere. In previsione
dell’inverno raccoglie in media più di 30000 semi; non in una sola volta ma in
gruppi di cinque e sei. E deposita i singoli gruppi in vari nascondigli:
all’incirca, 5500 nascondigli. Con la cattiva stagione, poi, la nocciolaia torna
ai nascondigli e si nutre».
Fin qui in linea con Christian De Duve “
non c’è mente senza cervello”.
Ma Bellone va oltre. Dopo aver argomentato sulla teoria della
conoscenza umana di Popper rivolge la sua attenzione anche alle piante: «Le
vediamo, ad esempio, perdere il fogliame. In genere sottovalutiamo il fatto che
i mutamenti osservabili in questi organismi viventi precedono l’inverno vero e proprio. In tal modo ci sfugge un aspetto
importante: le piante prevedono una caduta della temperatura e una diminuzione
spiccata nell’intensità della luce di cui hanno bisogno per vivere al meglio.
La previsione è notevolmente efficace, e funziona anche perché le variazioni
ambientali sono periodiche: gli inverni si assomigliano di anno in anno, e ciò
induce delle aspettative. Per elaborare una previsione è necessario disporre
dei sensori che misurino, ad esempio la tendenza a decrescere della temperatura
della nicchia. Le nostre piante pur non avendo reti di neuroni, sentono il sopraggiungere di un clima
rigido e si comportano come se
valutassero i cambiamenti percepiti entro schemi del tipo “se…allora”:
raffinatissimi processi interni ai loro corpi ricevono stimoli esterni, li
traducono in linguaggi incorporati e predispongono le opportune reazioni.
In altre occasioni ho già insistito su
argomenti consimili. Particolarmente efficace da un punto di vista didattico è
il caso esemplare di una patata selvatica, il Solanum berthaulthii, che è spesso attaccato da certi afidi. Questi
ultimi sono a loro volta predati da altri organismi e quando l’attacco si
profila, emettono e diffondono nell’ambiente circostante delle molecole molto
particolari che sono percepite da altri afidi e interpretate come un segnale di
allarme che suscita una reazione di fuga. Ebbene, le patate, aggredite dagli
afidi, producono e diffondono il medesimo messaggio molecolare, cosi da
dissuadere gli attaccanti per mezzo di una menzogna linguisticamente comunicata
con il sotterfugio consistente nella capacità di imitare il linguaggio altrui.
Sarebbe imperdonabile, anche in sede di
teoria della conoscenza, porre in sordina questo stato di cose. I vegetali non
hanno reti di neuroni, o cervelli che dir si voglia. E sarebbe stravagante concedere
alle piante un repertorio di stati mentali o una coscienza. Di fatto, però, i
vegetali hanno linguaggi, i cui segni di base sono ioni e molecole, grazie ai
quali trasferiscono informazioni sia al proprio interno, sia all’esterno, così da stabilire un rapporto con altri vegetali».
Decisamente in una nuova dimensione ci portano Stefano Mancuso e Alessandra Viola in
“Verde brillante, 2013. Gli autori, illustrando anche risultati di ricerche,
dopo aver evidenziato come le piante non solo sono in possesso dei nostri
stessi sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto), certamente sviluppati
secondo la natura vegetale e non umana, ma ne posseggono almeno altri quindici,
argomentano: «Come sappiamo bene, infatti, ogni pianta registra
ininterrottamente un gran numero di parametri ambientali (luce, umidità,
gradienti chimici, presenza di altre piante o animali, campi elettromagnetici,
gravità ecc.) e in base a questi dati è chiamata a prendere decisioni che
riguardano la ricerca di alimenti, la competizione, la difesa, i rapporti con
le altre piante e gli animali: un’attività difficile da immaginare senza
fioriefoglie,tgcom24.it
|
far
ricorso al concetto di intelligenza!» Gli autori trattano anche le piante
carnivore, che Darwin chiamava piante
insettivore e di cui se ne conoscono ormai circa seicento. Essi evidenziano
il processo evolutivo che ha portato le piante a nutrirsi anche di carne e le
loro sofisticate strategie per catturare le prede. E più avanti, dopo aver
evidenziato che le piante non hanno cervello almeno come lo intendiamo noi ed
essersi posta la domanda se il cervello è davvero la sola sede di “produzione”
dell’intelligenza affermano: «Nelle piante le funzioni cerebrali non sono
separate da quelle corporee, ma compresenti in ogni singola cellula: un vero e
proprio esempio vivente di ciò che gli studiosi di Intelligenza Artificiale
chiamano embodied agent, ovvero un
agente intelligente che interagisce con il mondo attraverso il proprio corpo
fisico».
S. Mancuso e A. Viola dopo aver
evidenziato come Darwin fosse stato anche uno straordinario botanico riportano
quanto egli scrisse in proposito «Non è un’esagerazione dire che la punta della
radice, così dotata di [sensitività] e che ha il potere di dirigere il movimento
delle regioni adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore, il
cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo riceve impressioni
dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti».
Dunque, le piante non hanno cervello,
almeno come noi lo intendiamo. Però, così come gli animali sembrano dotati di
un equipaggiamento cognitivo di base per la sopravvivenza, certamente orientato
verso la natura animale, non si può negare che anche le piante posseggano un
equipaggiamento cognitivo di base per la sopravvivenza, orientato in questo
caso verso la natura vegetale.
Tutto ciò
si scontra con la visione dogmatica delle neuroscienze. Infatti Antonio Damasio
nel saggio ”Il sé viene alla mente”2012, nel definire il quadro concettuale
delle sue ipotesi afferma: «Gli organismi generano la mente grazie all’attività
di cellule speciali-i neuroni-[…]». E in riferimento al successo dei nostri
antenati più remoti egli continua: «Che cosa aprì la strada a creature
complesse come noi? Ai fini della nostra comparsa, un ingrediente importante
sembra essere stato il movimento:
qualcosa di cui le piante non dispongono, ma di cui noi ed alcuni altri animali
siamo invece dotati. Le piante possono avere dei tropismi: alcune sono in grado
di orientarsi cercando il sole o evitando l’ombra; e alcune, come la carnivora
dionea, riescono a catturare insetti distratti. Nessuna pianta, però può
sradicarsi e andarsene a cercare un ambiente migliore da un’altra parte: è il
giardiniere che deve farlo per lei. La tragedia delle piante, che peraltro esse
ignorano , è che le loro cellule, circondate da una parete rigida come un
corsetto, non potranno mai modificare la propria forma in modo sufficiente per
diventare neuroni. Le piante non hanno cellule nervose: quindi non avranno mai
una mente».
Però, Antonio Damasio, come abbiamo
visto nel post precedente (già citato), attraverso l’omeostasi, alla singola
cellula eucariote attribuisce concetti di desideri, volontà , intenzioni e
scopi che noi associamo alla mente umana e argomenta: «Si è infatti constatato
che creature viventi del tutto prive di cervello, persino singole cellule,
presentano comportamenti apparentemente intelligenti e diretti a uno scopo:
anche questo è un fatto scarsamente apprezzato».
In verità queste opinioni sul
comportamento delle singole cellule li aveva già espresse Konrad Lorenz in
“Etologia”. Nel capitolo “Meccanismi che elaborano un’informazione momentanea”,
in riferimento al comportamento ameboide egli scrive: «Nel suo ambiente
naturale cioè in un liquido di coltura in cui essa può vivere permanentemente
l’ameba appare straordinariamente adattabile nel
suo comportamento, anzi addirittura intelligente. Essa si sottrae agli effetti
dannosi per mezzo di una fuga “di paura”, si avvicina a stimoli favorevoli,
ingloba e mangia “avidamente” un oggetto adatto. Se fosse grande come un cane,
dice Jennings, uno dei migliori conoscitori di protozoi, non si esiterebbe ad
attribuirle un’esperienza soggettiva».
Dunque le amebe sono capaci di
ragionamenti, di inferenze logiche. Se percepiscono
la presenza di cibo, allora si
dirigono nella direzione del nutrimento; se
l’ambiente è ostile, allora si
allontano.
Per sua sfortuna però l’ameba non è
grande come un cane e allora la sua apparente intelligenza è solo una questione
meccanica. Essa, come ci spiega Lorenz, è dovuta alla diversa capacità
dell’ectoplasma a reagire selettivamente a due diverse categorie di stimoli.
Nello stesso capitolo Lorenz scrive: «Pare
che non si conoscano unicellulari capaci di locomozione ma mancanti di
orientamento nello spazio», e che i parameci
all’interno di una “goccia sospesa” presentano reazioni fobiche. Non è chiaro come
tutto ciò possa essere spiegato come una reazione causata da uno stimolo.
Però Jennings ha fatto anche un
esperimento che riguarda lo Stentor, che Lorenz non ha ritenuto di prendere in
considerazione.
Citare un autore non implica
condividerne le idee, dal saggio di Rupert
www.microscopy-uk.org.uk
|
Sheldrake “Le illusioni della
scienza”2013, è stato tratto questo esempio: «Ogni Stentor è una cellula a
forma di tromba, coperta da file di sottili peli vibratili, detti ciglia.[…]
Queste cellule sono fissate alla loro base grazie a un “piede” e la parte
inferiore della cellula è circondata da un tubo simile a muco. Se la superfice
a cui è fissata viene leggermente scossa, Stentor si contrae rapidamente
all’interno del tubo. Se non succede altro, dopo circa un mezzo minuto si
estende di nuovo e le ciglia riprendono le loro attività. Se si ripete lo
stimolo, l’animale non si contrae più, ma continua le sue attività normali:
questo comportamento non è risultato di un affaticamento, perché la cellula
reagisce contraendosi se si presenta un nuovo stimolo, come l’essere toccata
(H. S. Jennings). Le membrane cellulari di Stentor sono percorse da una carica
elettrica, come le cellule nervose. Quando sono stimolate, un potenziale
d’azione si propaga sulla superfice della cellula, molto simile ad un impulso
nervoso e questo porta la cellula a contrarsi (D. C. Wood). Quando si abitua, i
recettori sulla membrane cellulare diventano meno sensibili alla stimolazione
meccanica e il potenziale d’azione non viene innescato (D. C. Wood). Poiché lo Stentor è formato da un’unica
cellula, la sua memoria non può essere spiegata in funzioni di cambiamenti
nelle terminazioni nervose, o sinapsi, poiché non ne ha alcuna».
Questo tipo di comportamento viene
chiamato abituazione, cioè assuefazione agli stimoli ed è presente negli
animali e anche nell’uomo. Se una persona va ad abitare in prossimità di una
ferrovia o di una strada con molto traffico, all’inizio viene disturbato ma in
seguito si abitua e non ci fa più caso. È una forma fondamentale di memoria
perché ci permette di adattarci all’ambiente.
Insomma Stentor ha una memoria. Stentor
ricorda.
Ci troviamo quindi di fronte a organismi
unicellulari che sanno orientarsi nello spazio,
presentano ragionamenti, scopi, intenzioni, volontà, desideri, ricordi,
comportamenti “apparentemente” intelligenti , cioè un equipaggiamento cognitivo
di base, concetti tipici della nostra mente; organismi unicellulari che sanno
badare a se stessi. Un equipaggiamento cognitivo molto più semplificato di quello
delle piante e degli animali, ma è quanto basta per la loro sopravvivenza; ma
Stentor non ha neuroni!
E allora, da dove viene questo
equipaggiamento cognitivo di base?
Christian de Duve nel capitolo “Il
funzionamento della mente” (opera citata) argomenta: «Nell’universo noto non
c’è un mistero più grande di quello della mente umana, eccezion fatta per il
mistero dell’universo stesso. Nata dal cervello, da cui dipende in modo critico
in ogni istante […], la mente è senza alcun dubbio il prodotto dei neuroni. […]
È la mente a generare i nostri pensieri, ragionamenti, intuizioni, riflessioni,
invenzioni, disegni, credenze, dubbi, immaginazioni, fantasie, desideri,
intenzioni, struggimenti, frustrazioni, sogni e incubi. Essa suscita i nostri
ricordi dal passato e plasma i nostri piani per il futuro; pesa, decide e
comanda». De Duve ha dimenticato la “volontà” tanto cara a Damasio.
Ma se gli organismi unicellulari e le
piante non hanno neuroni, allora il problema è: da dove vengono, in questi
organismi, i concetti tipici della nostra mente? E poi, in realtà, sulla mente
abbiamo certezze?
Christian De Duve, dopo aver citato
alcuni scienziati e filosofi che si occupano del problema della mente,
continua: «Queste poche citazioni dovrebbero chiarire che le ricerche sulla
mente sono ancora in uno stato embrionale. Questa situazione non dipende dalla
mancanza di studi. In anni recenti sono apparsi decine di libri sull’argomento,
scritti di neuroscienziati, linguisti, specialisti dei computer e filosofi, per
non contare i teologi. Purtroppo le tesi sostenute sono quasi altrettante
numerose degli autori, anche perché l’ideologia svolge un ruolo più importante
nella psicologia umana che in altri ambiti scientifici».
Tradotto, nessuno sa come il cervello
dia origine alla mente. Nessuno sa se esiste solo la mente cosciente degli
umani e se esistono anche menti coscienti in relazione al grado di evoluzione
di un organismo in un determinato ambiente. Nessuno ha mai dimostrato che è
necessario un cervello per dare origine ad una mente. Ora, il saggio di De Duve
è del 1995 e non sembra che negli ultimi due decenni questi problemi siano
stati risolti. Certamente si potrebbe attendere che illustri scienziati e
filosofi risolvano la questione; ma, se come scrive De Duve l’ideologia svolge
un ruolo importante in queste ricerche, si rischia un’attesa di altri quattro
secoli.
Intanto noi abbiamo un problema e
nell’attesa potremmo procurarci, attraverso un escamotage, una spiegazione
semplice e, giusto per non irritare nessuno, anche temporanea.
Senza voler entrare nel campo
filosofico, di cui non abbiamo né le competenze né la voglia, partiamo solo dai fatti, dalla constatazione
che concetti tipici della nostra mente sono posseduti anche da organismi che non
hanno cervello.
Allora il problema è: cosa genera negli
organismi unicellulari eucarioti, ragionamenti, scopi, intenzioni, volontà,
desideri, ricordi, comportamenti “apparentemente” intelligenti e la capacità di
sapersi orientare nello spazio, concetti tipici della nostra mente?
Shimon Edelmann in “La felicità della
ricerca, 2013”, dopo aver argomentato sull’idea che la cognizione è calcolo
scrive: «Fra le descrizioni più sintetiche della natura della mente umana, la
mia preferita è quella di Marvin Minsk, matematico e informatico: “La mente è
ciò che fa il cervello”. Avendo dato uno sguardo ai principi di quello che è la
mente (un fascio di calcoli al servizio della previsione) e a quello che fa il
cervello (eseguire quei calcoli), possiamo apprezzare la battuta di Minsk, ma
anche renderci conto che si presta a un’interpretazione molto affascinante: se
quello che il cervello fa può essere fatto con altri mezzi, allora può esistere
una mente anche senza che ci sia bisogno di un cervello. Per riconciliarci con
questa affermazione tremenda, ma vera, […]». E più avanti : «Dato che gli
stessi calcoli possono essere fatti con mezzi diversi, l’esistenza di menti non
biologiche è una concreta possibilità».
Quindi, vediamo di capirci qualcosa: noi
siamo disposti a dare ai nostri manufatti la capacità di possedere una mente,
ma rifiutiamo di dare una mente non solo agli organismi unicellulare ma anche
alle piante. Nessun computer può mai eguagliare le capacità di uno Stentor ma
quest’ultimo viene considerato un insignificante microorganismo mentre il
computer ha lo status di “cervello elettronico”. Eppure questi microorganismi
presentano scopi, intenzioni, volontà, desideri, ricordi, ragionamenti,
comportamenti “apparentemente” intelligenti e sanno orientarsi nello spazio,
cioè un equipaggiamento cognitivo di base, concetti tipici della nostra mente
che nessun computer possiede. Ingabbiati da
dogma e ideologie, per i microrganismi utilizziamo espressioni come: schemi del tipo
“se…allora”, oppure concetti come: ragionamenti, linguaggi e intelligenza
apparente, ma riduciamo tutto a meccanicismo e se non si trova si suppone o si
tace; però siamo disposti ad accettare menti non biologiche.
Noi non sappiamo se Stentor e le piante
hanno una loro coscienza, ma ci chiediamo: come può sopravvivere un organismo se, a modo suo, non
è consapevole del mondo che lo circonda?
Stentor e le piante hanno: memoria,
dirigono e risolvono processi intellettivi e pratici e forse hanno anche una
coscienza. Stentor e le piante sono tutto questo.
E allora, liberiamoci dalle gabbie, e parafrasando
Shimon Edelmann: se quello che il
cervello fa può essere fatto con altri mezzi allora gli organismi unicellulari eucarioti e tutti gli organismi
pluricellulari non dotati di cervello sono in possesso di una mente.
Quali siano questi “altri mezzi” non lo
sappiamo ancora, ma ad ognuno la sua mente semplice o complessa, giusto quanto
basta per la loro sopravvivenza.
E allora, Stentor e le piante hanno una
mente.
Quindi, partendo dagli organismi
unicellulari eucarioti e proseguendo dai pluricellulari fino agli organismi
superiori come piante e animali, sembra che non c’è vita senza un
equipaggiamento cognitivo di base, non c’è sopravvivenza senza una mente. Nello
scenario della vita, la mente appare
anche senza che ci sia bisogno di un cervello.
La mente deve essere stata una proprietà
emergente, nel senso dato all’emergenza da Ernst Mayr in “L’unicità della
biologia”2005: «La comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi
complessi». «Essa non racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica».
«Spesso nei sistemi complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si
possono prevedere) neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
Dunque la mente è già
presente negli organismi unicellulari eucarioti, e negli organismi più
semplici? E poi, quando appare la mente nello scenario della vita.
Giovanni Occhipinti
Prossimo articolo: leggere pagina info