Post n. 34
Origine della duplicazione cellulare, ovvero,
perché gli organismi viventi fanno figli e più figli di quanti ne possano
sopravvivere?
Nel post n. 13 abbiamo esaminato il problema
ed eravamo arrivati alla conclusione che per gli organismi viventi dare origine
ad una prole, e più prole di quanta ne possa sopravvivere, deve essere un
istinto contenuto nella loro struttura biochimica. L’istinto a dare origine
alla discendenza deve, quindi, necessariamente risalire alle proto-cellule e
quindi all’origine della vita. Se le proto-cellule non avessero dato origine ad
una discendenza, in un mondo ostile quale la Terra primordiale, sottoposte a
infinite avversità casuali, esse prima o poi si sarebbero decomposte.
E allora: comparsa la prole appare la vita.
Ma come ha fatto la discendenza ad entrare
nella struttura biochimica delle prime proto-cellule? Ovvero: come e perché ha
avuto inizio la divisione proto-cellulare?
Abbandonata
la cavità, l’ambiente che le proto-cellule hanno trovato ce lo descrive molto
bene J. William Schopf, (post. N. 16): «Poiché la distanza
Terra-Luna era minore, la Terra ruotava più rapidamente, le giornate erano più
corte, le maree più imponenti e le tempeste più forti. I cieli erano di un
caliginoso grigio acciaio, oscurati da tempeste di sabbia, nuvole vulcaniche e
sottili detriti rocciosi sollevati dal bombardamento meteoritico. […] A causa
della quasi totale assenza di ossigeno libero, l’ozono atmosferico (O3),
capace di assorbire i raggi ultravioletti, era ancora scarso, e la superfice
terrestre era immersa in una luce ultravioletta letale per le prime forme di
vita. Gli organismi dovevano ancora imparare a fronteggiare questo ambiente
ostile […]». Sicuramente, a causa di queste condizioni, la salinità, il pH, il
contenuto di sostanze organiche contenute nell’argilla cambiavano continuamente
e rendevano instabile l’equilibrio raggiunto dalla proto-cellula. Inoltre, all’interno dei micro-ambienti
delle masse argillose, forti micro-correnti di acqua potevano spazzarla via, la
sopravvivenza della proto-cellula era a rischio.
Il caos dominava l’ambiente, era necessario risolvere il problema qui e
ora.
Come abbiamo descritto altrove, l’omeostasi
rimane una questione interna alla proto-cellula, essa non ha nessuna
interazione diretta con l’ambiente esterno. Ma allora, come faceva l’omeostasi
ad essere informata delle condizioni
dell’ambiente circostante? Come abbiamo visto nel post n. 17 la membrana
plasmatica, negli attuali organismi, è il centro dinamico della vita cellulare,
dove le proteine della membrana svolgono un ruolo determinante anche nella
divisione cellulare. Le proteine della membrana anche se ancora rudimentali
dovevano già essere costituite da un testa a contatto con l’ambiente esterno,
un corpo immerso nella membrana e una coda a contatto con l’ambiente interno. Sicuramente
già allora, come oggi, furono tali proteine a informare l’omeostasi delle caotiche e letali condizioni
dell’ambiente esterno e a spingere verso
un cambiamento.
Ora, l’unico cambiamento possibile per la
sopravvivenza della proto-cellula, era aumentare la propria massa, e l’omeostasi
lo fa nell'unico modo in cui sa farlo: realizzare strutture e produrre
entropia. L’omeostasi coopta nella proto-cellula amminoacidi, zuccheri, basi
azotate dall'ambiente circostante e genera DNA, RNA e proteine. Ma questi
polimeri generati da stampi e enzimi esistenti sono le copie dei polimeri già
presenti che, per non dare origine a inutili sovrapposizioni di ruoli,
l’omeostasi confina le copie in una parte della proto-cellula. L’aumento della
massa sembra dare maggiore resistenza alla proto-cellula, ma causa un aumento
del volume e quindi della superficie della membrana. Per la sopravvivenza della
proto-cellula, l’omeostasi deve quindi sintetizzare anche proteine di membrana
e quest’ultima prelevare dall'ambiente e associare, tramite le code
idrofobiche, altre molecole di fosfolipidi per la sua crescita. L’aumento di
volume della proto-cellula mette sotto tensione la membrana. Ora, è stato
dimostrato sperimentalmente, che l’aggiunta di derivati lipidici o surfattanti
a vescicole preesistenti provoca dapprima una crescita delle vescicole e poi la
loro divisione spontanea. Possiamo allora immaginare che l’aumento della massa
e del volume della proto-cellula abbia dato iniziato al distacco della parte
contenente le copie.
Per non disperdere il contenuto della copia,
la proto-cellula adatta alcuni enzimi a guidare la separazione e a tenersi
incollata la parte che si è separata. Quindi i geni per la sintesi degli enzimi
necessari alla divisione proto-cellulare sono già presenti nel DNA, e poiché
sono fondamentali per la sopravvivenza della proto-cellula l’omeostasi li
utilizzerà principalmente a questo scopo.
La proto-cellula è diventata cellula.
La comparsa, attraverso l’omeostasi, delle
proteine per la divisione cellulare deve essere stata, all'interno delle due cellule,
il segnale per la replicazione del DNA, che portò le cellule figlie ad avere lo
stesso genoma.
Come per le vescicole cui vengono aggiunte
derivati lipidici, la divisione proto-cellulare è stata termodinamicamente
favorita. Per mantenere il loro equilibrio interno, per la propria
sopravvivenza, le due cellule danno origine a quattro, a otto cellule e così
via fino a creare una colonia. La colonia di cellule occupa il microambiente e
dà origine ad una omeostasi dell’intera colonia che controlla i parametri del
microambiente e mantiene al suo interno l’equilibrio termodinamico.
Le proteine di membrana delle cellule interne
alla colonia, comunicano alla propria omeostasi il miglioramento dei parametri
ambientali al loro intorno, e quindi una maggior probabilità di sopravvivenza.
Ma le proteine di membrana delle cellule esterne della colonia comunicano il
rischio della loro posizione e alcune vengono addirittura spazzate via o
distrutte dall'ambiente circostante ostile. L’omeostasi della colonia, deputata
alla sopravvivenza delle cellule, preleva dall'ambiente il materiale necessario
per la divisione cellulare. Tale divisione deve, però, dare origine a più cellule
del necessario, cioè più individui di quanti ne possano sopravvivere perché
molte di esse non sopravvivranno alle avversità dell’ambiente.
La singola cellula attraverso l’omeostasi
mantiene l’equilibrio al suo interno, l’omeostasi della colonia di cellule e
successivamente l’omeostasi di gruppo o della specie mantiene in equilibrio
l’ambiente circostante.
Ma se la divisione cellulare è già contenuta
nel DNA, chi decide di attivare i geni per produrre prole e più prole di quanti
ne possano sopravvivere?
È l’omeostasi che, deputata alla sopravvivenza,
per mantenere in equilibrio l’ambiente circostante, attiva i geni e definisce il
numero dei discendenti degli organismi viventi, in funzione del nutrimento a
disposizione, dell’omeostasi della colonia, del gruppo o della specie e delle
condizioni ambientali o più in generale in funzione dell’omeostasi
dell’ecosistema. Se queste condizioni non cambiano il numero dei discendenti
così definito può rimanere pressappoco invariato per migliaia o milioni di
anni.
Tutti gli organismi viventi derivano da queste
cellule primordiali e quindi tutti gli organismi viventi contengono nella loro
struttura biochimica, nel loro genoma, il tratto ancestrale della discendenza
ma devono misurarsi con l’ambiente circostante (o se volete: la prole è
genetica, quanta prole è epigenetica).
E allora
perché nel genoma degli organismi viventi è contenuto l’istinto alla discendenza?
Per mantenere in equilibrio l’ambiente circostante necessario alla propria
sopravvivenza. Esplicitamente, sotto il controllo di un’omeostasi di gruppo o
della specie e delle condizioni ambientali, gli organismi viventi per
sopravvivere fanno figli e i figli per la propria sopravvivenza continuano a
fare figli.
Nella specie
umana l’evoluzione culturale ha apportato qualche variazione al tema, ma non
più di tanto. Immaginate una città che chiameremo A e una sua copia perfetta che
chiameremo B. Ora, mentre nella prima città si continua a fare figli e molti
abitanti possono raggiungere una veneranda età, nella seconda città gli
abitanti, per esercitare un risparmio, decidono di non fare più figli. Cosa
accadrà nella città B. Si rompe l’equilibrio ambientale. Per fare qualche
esempio, guardando solo gli aspetti economici, negli ospedali si chiudono i
reparti di neo-natalità, il commercio dei prodotti per l’infanzia scomparirà e
gli asili nido chiuderanno. Gli abitanti presto lotteranno per accaparrarsi le
risorse disponibili, si scatenerà una guerra civile e nessuno raggiungerà
venerande età perché la città non sopravvivrà più di qualche anno.
Riprodursi
per la propria sopravvivenza.
L’unitarietà della vita
Abbiamo
detto che i proto-organismi formati in zone vulcaniche erano diversi perché
diversi erano gli amminoacidi costituenti le proteine. Ma allora anche le
cellule formate in prossimità di quelle aree essere diverse. Queste cellule
dovevano quindi sviluppare vie metaboliche diverse.
Ma
allora, perché la vita è unitaria?
Il DNA
(acido desossiribonucleico) è la molecola che contiene l’informazione genetica.
È scritto nel DNA se un organismo sarà un essere umano, un albero o un
microorganismo. Nel DNA di tutti gli organismi, sono stati individuati decine
di migliaia di segmenti chiamati geni. Sono geni, o gruppi di geni, che
stabiliscono il colore della pelle, il numero della dita di una mano e così
via. Ogni organismo vivente trasmette
sempre il proprio patrimonio genetico a ai discendenti. Tale trasmissione
viene chiamata verticale e si riteneva che fosse I’ unico modo di trasmissione
genetica tra gli organismi viventi. Negli anni 80 del secolo scorso, venne
scoperta, nel mondo batterico e fra eucarioti monocellulari, la trasmissione
laterale detta anche trasmissione orizzontale: i geni non si trasmettono soltanto da un organismo ai propri
discendenti ma anche tra cellule che non presentano alcun legame di parentela.
Partendo
dall’ipotesi che la vita ha avuto tante origini, tutte quasi ugual i perché
quasi uguali erano le condizioni chimico-fisiche del nostro pianeta, è
probabile che colonie di cellule simili in un determinato ambiente abbiano dato
origine a una popolazione. Nei diversi ambienti le varie popolazioni
svilupparono inizialmente proprie vie metaboliche. Le cellule che si trovavano
alla periferia di ogni popolazione prelevavano iI loro nutrimento dall’ambiente
circostante.
Ma
quando il nutrimento ha iniziato a scarseggiare non poteva essere trascurato i
I nutrimento contenuto nelle cellule morte di altre popolazioni. Queste ultime
però contenevano sicuramente sostanze e processi metabolici sconosciuti. Così
le cellule periferiche per poter utilizzare appieno il nutrimento di cellule di
altre popolazioni si sono impadronite anche dei geni dei loro sistemi
metabolici. Tali geni dalla periferia vennero poi trasmesse a tutta la
popolazione. L’insieme delle popolazioni deve aver dato origine ad una comunità
di cellule primitive che attraverso il continuo scambio di geni portò all’ unitarietà
della vita. Quando il nutrimento prebiotico scomparve del tutto alcune
popolazioni di cellule vicine divennero predatori nutrendosi delle popolazioni
di cellule vicine e così l’unitarietà della vita fu completata. Da questa
comunità di cellule primitive emersero infine i Batteri, gli Eucarioti e gli
Archei,
Fu un’esigenza
di sopravvivenza già dalle origini a far si che il pesce grande mangia iI pesce
piccolo, l’aquila il serpente e noi mangiamo tutti. L‘unitarietà della vita
potrebbe quindi dipendere dalla trasmissione laterale, cioè dagli scambi
genetici tra microorganismi senza vincolo di parentela. Senza la trasmissione
laterale ogni popolazione avrebbe a sviluppare ciascuno i propri processi
metabolici, la vita non sarebbe stata un processo unitario e difficilmente
avrebbe potuto evolversi.
Giovanni Occhipinti