Post n. 55
Introduzione
La
questione della denatalità, accanto a quella del sovrappopolamento si è posta
in termini pressanti all’attenzione della pubblica opinione politica e
accademica del mondo occidentale industrializzato intorno alla seconda metà del
secolo scorso per affermarsi nel giro di pochi decenni come una problematica ad
altre aree del mondo. Nell’ambito di un sensibile interesse per le tematiche
demografiche personalità della politica, del giornalismo, dell’imprenditoria
hanno manifestato le loro preoccupazioni per i rischi connessi al fenomeno
della denatalità e per le conseguenze che esso comporta per la crescita e lo
sviluppo del pianeta. Fra le numerose specie di inquietudini manifestate
registriamo quella di un impoverimento della ricchezza delle società sviluppate
e del loro tasso di benessere a meno di ovviare al decremento demografico con
un massiccio flusso immigratorio da parte delle popolazioni in crescita nel
resto del mondo, in particolare dell’Africa e dall’Oriente Asiatico. Ma di
fronte a tale eventualità si sono presto paventate la perdita di identità e il
venir meno della sicurezza civile della civiltà occidentale. Di qui le proposte
di misure legislative e amministrative volte a favorire la propensione delle
famiglie a procreare, quali misure fiscali di detassazione e di incentivazione
monetarie accanto ad una serie di misure infrastrutturali tese a rendere meno
oneroso il compito di assistenza alla prole, quali asili nido, consultori per
l’infanzia, misure di flessibilità nell’orario di prestazione lavorativa e di
congedi per genitori di figli in età infantile. A fronte di proposte
interessanti e convincenti le realizzazioni dei propositi manifestati non sono
state soddisfacenti quanto si era sperato che lo fossero. Intanto alla
realizzazione delle misure ricordate ha fatto da ostacolo la crisi finanziaria
degli Stati che non hanno potuto sostenere il finanziamento degli interventi
proposti. È anche da registrare che laddove le politiche di sostegno alle
famiglie sono state generose ed hanno visto una concreta realizzazione, la
risposta da parte delle categorie sociali interessate non è stata alla altezza
delle aspettative, segno che la rinuncia a procreare non è causata soltanto
dalle difficoltà economiche in cui si trovano le famiglie che devono crescere
la prole, ma che vi sono altre cause di ordine diverso, non solo culturale e
sociale, ma di altra natura.
1°
Parte
In
effetti il tema è finora stato trattato secondo un’ottica economica. Ciò ha
significato affrontare la questione secondo un’ottica che si ispira a
discipline che genericamente possiamo ascrivere alle scienze umane. Non si vuol
con questo sostenere che tale prospettiva non sia convincente e plausibile.
Rimane però esclusa la prospettiva propria delle scienze naturali e nello
specifico quella biologica. Si tratta di considerare la tematica inquadrandola
in un ambito ancora più generale e preliminare rispetto a quello adottato
finora.
Ernst
Mayr in L’unicità della biologia, 2005, fa propria la nota affermazione del
grande biologo evoluzionista Christian Tehodosius Dobzhanski: “in biologia
nulla ha senso se non nell’ottica dell’evoluzione”. Ora, se si assume la
dimensione biologica dell’uomo non è disdicevole considerare la procreazione
nel suo aspetto materiale come un processo biologico. Ne segue che il problema
della denatalità sia innanzitutto una questione evolutiva e che vada
ricondotto, in primo luogo, all’interno della teoria darwiniana. E allora, per
affrontare il problema alla luce dell’evoluzione forse è utile partire da una
domanda: quale è lo scopo principale degli organismi viventi? La maggior parte
degli scienziati è d’accordo nel ritenere che lo scopo principale degli organismi
viventi sia sopravvivere e riprodursi. Ora, se la sopravvivenza è un principio
di per sé evidente e plausibile, non altrettanto è quello della riproduzione.
Riprodursi, perché? Perché gli animali fanno figli? Perché tutti gli organismi
viventi, invece di “esercitare un risparmio energetico personale”, danno
origine, per istinto, a discendenti e spesso anche a spese della propria vita?
È lecito supporre che la riproduzione come fenomeno generale del sistema
biologico trovi la sua ragione d’essere nella sua funzione strumentale rispetto
alla sopravvivenza. Niels Eldridge in “Ripensare Darwin” 2008, discute una tesi
di George Williams (a suo parere tra i difensori più rigidi della tradizione
darwiniana) scrivendo: «Williams, continuando a ripetere che la selezione non
può ‘prevedere’ il futuro, ne conclude - non irragionevolmente - che non è
possibile che gli organismi si riproducano con lo scopo di perpetuare la
popolazione o la specie di cui fanno parte. La selezione naturale non può
sapere in alcun modo che cosa vi è in serbo per una specie man mano che il
tempo passa». Se la riproduzione non ha lo scopo di perpetuare la specie perché
tutti gli organismi viventi si riproducono? La riproduzione si presenta come un
comportamento degli esseri viventi dettato loro da un istinto incomprimibile?
Ora, poiché tutti gli organismi viventi sono discendenti delle prime cellule
comparse circa 3,6 miliardi di anni fa, l’istinto di dare origine ad una prole
deve necessariamente risalire alle prime cellule. È ormai opinione abbastanza
condivisa che la vita abbia avuto più origini. È allora da presumere che
all’inizio siano comparse cellule che non erano in grado di dare origine ad una
discendenza e altre capaci di dare alla discendenza. Delle prime non è rimasta
traccia, si sono estinte. Le cellule che sono riuscite a dare origine ad una
discendenza generando copie di sé stesse formando colonie, sono sopravvissute
alle terribili condizioni dell’ambiente primordiale.
Sembra quindi che la riproduzione consenta la
sopravvivenza dei genitori.
Poiché
tutti gli organismi viventi discendono dalle prime cellule, tutti gli organismi
viventi hanno ereditato l’istinto alla riproduzione.
Essendo
gli animali discendenti dei primi organismi questa conclusione è valida anche
per loro? Un esempio può aiutare a chiarire meglio quanto detto. Immaginiamo di
trovarci in Africa dove vivono gruppi di antilopi. Se questi animali, per
conseguire un risparmio energetico, non facessero più figli, in poco tempo i
leoni li sbranerebbero e le antilopi scomparirebbero dalla Terra. Le antilopi
invece per istinto fanno figli, accrescono la loro popolazione e fra i tanti
campioni che la costituiscono sono gli esemplari più deboli e quelli più
giovani, ancora inesperti, a soccombere all’attacco predatorio dei leoni. I
genitori del gruppo molto più esperti e selezionati dall’evoluzione e i
discendenti con qualche piccolo vantaggio evolutivo sfuggono all’assalto. Si
può dunque dire che una classe della discendenza è servita come scudo per la
sopravvivenza dei genitori e dei discendenti più evoluti.
Non si può non evidenziare, in questo
esempio, che la riproduzione consente
ai genitori di sopravvivere.
Si
pone a questo punto un quesito: cosa stabilisce quale debba essere il tasso di
sopravvivenza dei discendenti e dunque l’ammontare della popolazione? Secondo
Darwin sono l’abbondanza o meno del cibo, le malattie, i predatori, il clima,
in definitiva è l’ambiente in cui la specie vive a regolare il meccanismo
demografico. È corretto allora concludere che:
la
discendenza è genetica, la sopravvivenza dei discendenti è epigenetica.
Questa
conclusione, valida per tutti gli organismi viventi, è valida anche per gli
esseri umani e in particolare i contemporanei che oltre all’evoluzione
darwiniana sono soggetti anche ad una evoluzione culturale? Un esperimento
mentale può aiutare a chiarire i concetti. Si immagini che esista una città A e
una sua copia perfetta B, le quali godono di un certo grado benessere. Si
ipotizzi che gli abitanti di A, per conseguire un risparmio energetico,
decidano di non fare più figli. Ne conseguirebbe la rottura dell’equilibrio
socio-ambientale. Per fare qualche esempio, considerando soltanto gli aspetti economici,
negli ospedali si chiuderebbero i reparti di neo-natalità, il commercio dei
prodotti per l’infanzia scomparirebbero dal mercato e gli asili nido
chiuderebbero. È evidente che si determinerebbero altri simili sconvolgimenti
che porterebbero, i cittadini di A, a contendersi le risorse disponibili, si
scatenerebbe una guerra civile e nessuno potrebbe sperare di raggiungere
venerande età perché la città sarebbe destinata nel giro di poco tempo a
soccombere. Nella città B si ipotizzi invece che si continua a fare figli. Non
c’è ragione di dubitare che la vita non debba scorrere come sempre e molti
abitanti possano raggiungere una veneranda età.
Quindi
anche per gli esseri umani, la riproduzione consente ai
genitori di sopravvivere.
In
conclusione, un dato sembra emergere: tutti gli organismi viventi, esseri umani
compresi, per sopravvivere fanno figli e i figli per la propria sopravvivenza
continuano a fare figli nel limite consentito dal contesto ambientale.
In
che modo l’ambiente regola il numero dei discendenti anche nel caso di comunità
di esseri umani? Perché nella città B che pure gode di un certo benessere si
lamenta un insufficiente tasso di procreazione? La risposta a queste domande è
che fare figli ha un suo costo economico non sempre disponibile. A ciò si
aggiunga l’impegno che richiede l’accudimento della prole, i sacrifici e le
rinunce che mettono sotto stress la salute dei genitori. Paradossalmente si
fanno figli per sopravvivere ma per continuare a sopravvivere, dove il termine
deve essere inteso come una esistenza il più possibile gratificante e in buona
salute, si smette di fare figli. Condizioni materiali di vita ed evoluzione
culturale determinano la scelta dei genitori di procreare.
Si
consideri il caso in cui un paese sviluppato adotti una politica di
incentivazione delle nascite assicurando sostegni economici alle famiglie con
figli. Per esempio: 100 euro per il primo figlio 200 per il secondo 300 per il
terzo e 400 per il quarto figlio. Quale classe di individui sarà sensibile a
tali aiuti? Non certo le coppie che vivono già di un certo benessere. Laddove
si riscontra un elevato tasso di disoccupazione e il lavoro è precario è
possibile che una coppia possa decidere di avere 4 figli e incassare 1000 euro
al mese.
La
riproduzione permette ai genitori di sopravvivere.
Da
tutto ciò ne consegue che per aumentare le nascite bisognerebbe attentare alla
sicurezza economica dei genitori.
Le
politiche della famiglia, le campagne propagandistiche, ma anche gli appelli ideologici
hanno denunciato la loro scarsa efficacia.
In
alcuni paesi la denatalità si è fortemente accentuata e i loro Leader hanno
moltiplicato gli appelli a fare figli per il bene della Nazione. Ma qual è la
situazione ambientale di questi paesi? I loro governanti chiedono ai loro
popoli di fare più figli per scatenare guerre o prepararsi alla guerra, ma così
facendo minacciano la sopravvivenza dei cittadini. Questi appelli sono quindi
inutili. Gli organismi viventi non fanno figli per perpetuare la specie o la
popolazione, a maggior ragione non faranno figli per la propria nazione che non
è nemmeno un’entità biologiche. Tranne qualche fanatico nazionalista la
stragrande maggioranza della popolazione di questi paesi, al contrario,
smetterà di fare figli perché i loro Leader attentano alla loro sopravvivenza.
2°
Parte
Certamente
rimane ancora aperto e meritevole di spiegazione il fatto che in realtà sociopolitiche,
il cui reddito pro-capite è insufficiente a contrastare la tragedia della
denutrizione e dunque della mancata sopravvivenza della popolazione neonatale, si
fanno figli e più figli di quanti ne possono sopravvivere. Il tasso di natalità
si attesta in alcuni paesi su livelli elevati cui fa seguito la comparsa del
fenomeno della sovrappolazione. Fenomeno che è stato più volte stigmatizzato
come foriero di crisi gravissime per la tenuta del sistema planetario e
meritevole della definizione di “bomba demografica”.
Una prima spiegazione considera come in tali
paesi l’assenza del sostegno sociale i figli sono necessari per assistere i
genitori anziani e/o malati. Qui si apre un campo di indagine riguardante la
interferenza tra la sopravvivenza e l’ambiente. Si è fatto riferimento a questo
proposito alla natura epigenetica del tasso di crescita della popolazione.
Tenendo conto di quanto finora argomentato si è ad un passo dal concludere che
la politica più efficace per combattere la denatalità è quella per la quale l’ambiente
retroagisca sull’istinto di sopravvivenza in maniera che il tasso di crescita
sia tale da garantire una composizione della popolazione per classi di età
compatibile con il modello di riproduzione economico-produttiva vigente nelle
varie realtà planetarie. In termini crudi che richiamano la nota tesi di
Malthus si tratta di conseguire un equilibrio tra bisogni e risorse che consenta
la sopravvivenza della specie senza dover subire irregolari, serie e a volte
drammatiche crisi demografiche. In realtà la problematica demografica del
pianeta si manifesta nelle due forme antitetiche della denatalità nei paesi
industrializzati e della crescita esplosiva nelle aree arretrate del mondo.
L’intervento correttivo della cruda dinamica demografica dei paesi del
sottosviluppo ha contribuito in maniera determinante alla crescita della
popolazione intervenendo con misure efficaci a diminuire la mortalità. In
questo caso le condizioni ambientali hanno continuato ad agire nel senso di non
limitare la forza intrinseca dell’istinto di sopravvivenza. Le condizioni di
vita arretrate e difficili hanno fornito l’alimento necessario a rendere
operativo e al massimo grado l’ὁρμή, l'impulso naturale, che definisce
l’istinto di sopravvivenza. All’opposto, nelle società industrializzate e
dotate di un articolato sistema di welfare, la forza dell’istinto viene
attenuata dal sentimento di protezione offerto dalle politiche assistenziali.
In queste realtà l’istinto di conservazione e di sopravvivenza è percepito con
minore impellenza e dunque il sacrificio che comporterebbe la cura della prole
in termini di sforzi economici e di impegno non è ritenuto adeguatamente
compensato da un più tenue bisogno di sicurezza. Le conseguenze di tale scelta
conferma il fatto che il comportamento degli esseri umani quali esseri
biologici viventi non è guidato da una capacità di anticipare le problematiche
e le crisi che riserva loro il futuro. Infatti, la rassicurazione che
l’assistenza riservata alle classi d’età avanzate non è per nulla certa. Si
determina un processo che alla lunga appare vizioso. La denatalità sconvolge le
proporzioni in cui si struttura la popolazione per classi d’età fenomeno reso
perspicuo dalla immagine della piramide rovesciata: gli anziani diventano la
maggioranza della popolazione che si regge su una base sempre più ristretta.
Fossati
Pasquale
Giovanni
Occhipinti