Post n.13
Alla
ricerca del significato della vita, Paul Davies nel saggio, “Da dove viene la
vita” 2000, argomenta: «Com’è ovvio, l’evoluzione darwiniana può operare solo
se la vita esiste già in qualche forma (in senso stretto, non è necessaria la
vita in tutto il suo splendore, ma solo la duplicazione, la variazione e la
selezione). Il darwinismo non può offrire alcun aiuto per spiegare quel primo
passo cruciale: l’origine della vita. Ma se la teoria centrale della vita non è
in grado di spiegarne l’origine, siamo di fronte ad un serio problema».
Dunque
secondo Davies abbiamo un problema. Ma il
problema di chi è?
Ora,
la teoria di Darwin nelle sue linee essenziali si basa su tre fatti
fondamentali:
1)
Nascono
più individui di quanto ne possano sopravvivere.
2)
Gli
individui non sono tutti uguali ma presentano delle variazioni casuali (nel
senso di non finalizzate).
3) La selezione naturale: sopravvive
l’individuo che presenta la variazione più adatta in un determinato ambiente.
In
riferimento alle teorie sull’origine della vita, Paul Davies aggiunge (opera
citata): «Tutte le teorie hanno in comune una medesima idea: una volta che la
vita è nata, in qualunque forma, il resto è venuto da sé, perché l’evoluzione
darwiniana ha potuto prendere il via. Quindi è naturale che gli scienziati
cerchino di ricorrere al darwinismo a partire dalla primissima fase della
storia della vita: con il suo ingresso in campo, sono possibili enormi
miglioramenti sospinti solo dalla forza trainante del caso e della selezione».
I
tentativi di legare una teoria dell’origine della vita con il darwinismo hanno
riguardato, essenzialmente i punti due e tre, cioè: il caso e la selezione
naturale. Questi tentativi, come abbiamo visto in precedenti articoli, sono
miseramente falliti.
Il caso è
diventato un mito, o per utilizzare l’espressione di Paul Davies “la parola
magica”, che gli scienziati utilizzano per ripararsi sotto la coperta di Darwin.
La selezione
naturale estesa anche alle molecole fu il tentativo, fallito, dei sostenitori
del “Mondo a RNA” di estendere l’evoluzione
darwiniana all’origine della vita.
Per
chiudere la questione rimane da esaminare il primo fatto fondamentale:
Nascono più individui
di quanto ne possano sopravvivere.
È
possibile che ci sia almeno un collegamento tra questo fatto fondamentale della
teoria di Darwin e l’origine della vita?
Nell’esaminare
la struttura della teoria darwiniana Mario Ageno in “Le radici della
biologia”,1986, afferma: «Possiamo a questo punto concludere la nostra breve
analisi critica di alcuni concetti fondamentali della teoria darwiniana. Da
essa sono emerse alcune smagliature della ordinaria impostazione della teoria,
che possiamo riassumere nel modo seguente: «[…].La teoria prende atto, senza
cercare in alcun modo di giustificare,
dell’esistenza, per ogni popolazione vivente, di un largo eccesso di
capacità riproduttiva, che costituisce la “forza motrice” di ogni processo
evolutivo.[…]».
Quindi,
Darwin non dà nessuna giustificazione alla “forza motrice” della sua teoria.
La
questione viene sollevata anche da S. J. Gould ed Elisabeth S. Vrba in
“Exaptation” 2008, quando affermano: «Nella teoria darwiniana, il cambiamento
evolutivo è il prodotto del successo differenziale, cioè dei tassi differenti
di natalità e di mortalità fra gli organismi che variano all’interno di una
popolazione. Come tale, è una semplice descrizione di rappresentazioni
differenziali in una popolazione: in se non contiene alcuna affermazione
riguardante le cause del fenomeno».
Ernst
Mayr in “L’unicità della biologia”, 2005, dopo aver evidenziato che la biologia
si compone di due settori cioè la biologia meccanicista (o funzionale) e la
biologia storica o evolutiva, afferma: «Tuttavia, nella biologia funzionale la
domanda che più spesso viene posta è “in che modo”, mentre nella biologia
evolutiva la domanda più frequente è “perché”».
E
allora, nascono più individui di quanto
ne possano sopravvivere. Perché?
Niles
Eldredge nel saggio “Ripensare Darwin”,2008, dopo aver evidenziato che ad ogni
generazione, nascono più organismi di quanti ne possano sopravvivere e
riprodursi ricorda quanto scrisse George Williams in “Adaptation and natural
selection”, 1966: «La selezione, nel giudizio di Williams, non se ne intende di
futuro – non ha modo di riconoscere che cosa potrebbe essere vantaggioso per la
sopravvivenza della specie».
Maynard
Smith in “La teoria dell’evoluzione” 1976, non sembra condividere questo parere
ma non affronta direttamente la questione. Egli riporta però un
lavoro di Lack sul numero delle uova deposto dalle
aringhe (migliaia) e da altri pesci e conclude:
«Si potrebbe concludere che, in vista di un’alta mortalità larvale, è
necessario che l’aringa deponga un gran numero di uova se la specie deve sopravvivere.
Questo è abbastanza vero […]».
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Sulla
stessa linea è anche Mario Ageno quando afferma (opera citata): «Il primo fatto
che vogliamo richiamare è l’eccesso di
potenziale riproduttivo che ogni tipo di organismo presenta. È chiaro che
(tenendo anche conto della inevitabile insorgenza di incidenti occasionali che
si risolvono nella eliminazione di esemplari della popolazione), ogni
popolazione per non estinguersi deve essere in grado di generare un numero di
figli per genitore in media sensibilmente maggiore
di uno».
S.
J. Gould ed Elisabeth Vrba hanno sì sollevato
la questione ma non hanno espresso nessuna opinione.
Anche
Niles Eldredge non chiarisce bene la sua opinione sulla questione. Però egli, in
“Ripensare Darwin” 2008, riporta ancora quanto scrive George Williams (a suo
parere tra i difensori più rigidi della tradizione darwiniana): «Williams, continuando
a ripetere che la selezione non può “prevedere” il futuro, ne concluse- non
irragionevolmente- che non è possibile che gli organismi si riproducano con lo
scopo di perpetuare la popolazione o la specie di cui fanno parte. La selezione
naturale non può sapere in alcun modo che cosa vi è in serbo per una specie man
mano che il tempo passa». Eldredge condivide quindi il pensiero di Williams ma
non condivide le conclusioni quando Williams scrive: “scopo della riproduzione
di un individuo è […] massimizzare la rappresentazione del materiale ereditario
delle proprie cellule germinali, relativamente a quello di altri membri della stessa popolazione».
Dunque,
riepilogando, perché nascono più
individui di quanto ne possano sopravvivere?
Darwin non dà nessuna giustificazione, Williams afferma che l’evoluzione non può conoscere il futuro, Maynard Smith e Mario Ageno pensano che sia per la sopravvivenza della specie, Niles Eldredge li smentisce condividendo l’affermazione di Williams che la selezione non può prevedere il futuro, S. J. Gould ed Elisabeth Vrba non si pronunciano e altri evoluzionisti si sono tenuti alla larga.
Darwin non dà nessuna giustificazione, Williams afferma che l’evoluzione non può conoscere il futuro, Maynard Smith e Mario Ageno pensano che sia per la sopravvivenza della specie, Niles Eldredge li smentisce condividendo l’affermazione di Williams che la selezione non può prevedere il futuro, S. J. Gould ed Elisabeth Vrba non si pronunciano e altri evoluzionisti si sono tenuti alla larga.
Per
concludere, la questione rimane irrisolta.
In
riferimento a più generali problemi, (opera citata), Eldredge scrive: «Concordo
con George Williams quando afferma che i problemi scientifici non vengono tanto
risolti quanto tranquillamente abbandonati a favore di qualche nuovo insieme di
questioni che sopraggiungono ad assorbire l’interesse di una disciplina».
Qui
sembra proprio di essere in presenza di un problema abbandonato. Ma le cose
abbandonate appartengono a tutti e noi sulla questione avremmo qualcosa da
dire. Filosofi e teologi questa volta debbono pazientare.
Premesso
che l’evoluzione non è finalizzata, non
ha scopi.
Allora,
perché nascono più individui di quanto ne
possano sopravvivere?
In
realtà, prima di porsi la domanda del “perché” di questo fatto fondamentale
della teoria di Darwin, bisogna innanzitutto chiedersi: perché gli animali
fanno figli? Perché tutti gli organismi viventi danno origine a discendenti? Perché nascono
gli individui? Solo dopo ci si può chiedere: perché nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere?
E
allora, perché tutti gli organismi viventi danno origine a discendenti?
Perché
nascono gli individui?
È
qualcosa che è innata, è un istinto. Per gli organismi viventi dare origine ad
una discendenza è un istinto contenuto, dalle origini, nella loro struttura biochimica. Deve
essere necessariamente così. Se questo istinto non fosse
contenuto nella struttura biochimica originaria, una specie durante la sua
evoluzione, potrebbe, per “esercitare un risparmio”, non dare origine a prole
ed estinguersi. E invece gli organismi viventi danno origine a prole, nelle
condizioni più avverse, a scapito di un “risparmio personale”, e spesso a spese
della propria vita. È ovvio che all'interno della specie alcuni organismi viventi possono non dare origine a prole, ma è la specie nel suo insieme che garantisce la sopravvivenza. L’istinto a dare origine ad una
prole deve necessariamente risalire alle prime cellule e quindi all'origine
della vita. Se le prime cellule non avessero dato origine ad una discendenza,
la vita non sarebbe apparsa. La
discendenza appare con l’origine della vita e quindi non può essere stato un
processo darwiniano; l’evoluzione inizia con la discendenza, ma essa c’era già.
Dunque è chiaro che non si tratta dello stesso “Istinto” di cui discute Darwin
nel capitolo 7, come egli stesso afferma: «Debbo premettere che non mi occupo
dell’origine delle prime facoltà psichiche, più di quanto non mi curi della
vita in se stessa. Qui ci interessano solo le differenze degli istinti e di
altre facoltà psichiche degli animali di una stessa classe. Non cercherò di
definire l’istinto».
E
allora, l’istinto a dare origine ad una prole, come lo si potrebbe definire?
Dunque,
sono comparse le prime cellule.
Alcune sicuramente non erano in grado di dare origine ad una discendenza e si son estinte.
Alcune cellule hanno dato origine ad una discendenza, ma allora origine della vita e istinto a dare una prole sono contemporanee, comparsa la prole compare le vita. Insomma, non esiste un istinto a dare origine discendenti separato dall'origine della vita, come qualcosa che è venuto dopo. Origine della vita e prole sono il prodotto, senza soluzione di continuità. della stessa struttura biochimica. In definitiva, la struttura biochimica che ha dato origine alla vita, non ha smesso, continua a dare origine alla vita: la prole.
Alcune sicuramente non erano in grado di dare origine ad una discendenza e si son estinte.
Alcune cellule hanno dato origine ad una discendenza, ma allora origine della vita e istinto a dare una prole sono contemporanee, comparsa la prole compare le vita. Insomma, non esiste un istinto a dare origine discendenti separato dall'origine della vita, come qualcosa che è venuto dopo. Origine della vita e prole sono il prodotto, senza soluzione di continuità. della stessa struttura biochimica. In definitiva, la struttura biochimica che ha dato origine alla vita, non ha smesso, continua a dare origine alla vita: la prole.
E
perché nascono più individui di quanto ne
possano sopravvivere?
È
qualcosa che è innata, è un istinto.
Quattro
miliardi di anni fa la giovane terra era ancora martoriata da impatti cometari,
eruzioni vulcaniche ed era inospitale. Se la vita avesse avuto origine una sola
volta con una singola cellula, essa difficilmente avrebbe potuto superare le innumerevoli
vicissitudini cui sarebbe stata sottoposta. La vita deve aver avuto più origini.
E già allora, con errori di riproduzione e presenza di predatori, deve essersi instaurata una dura lotta per l’esistenza e
una competizione per accaparrarsi le nicchie disponibili. Per sopravvivere, nella
quotidianità, bisognava essere in tanti. Perciò, sottoposti alla selezione naturale, solo gli organismi
che hanno dato origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere hanno
vinto la lotta per l’esistenza. Ma allora dare
origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere, che per brevità
possiamo definire istinto per l’esistenza,
era già contenuto nella struttura biochimica degli organismi che hanno vinto
la lotta per l’esistenza. Gli organismi
sono stati sì sottoposti alla selezione naturale, ma non c’è stato nessun
processo darwiniano. L’istinto per l’esistenza è stato sì
plasmato dall’evoluzione, ma c’era già, era contenuto nella struttura
biochimica originaria, tant’è che è presente in tutti gli organismi viventi fin
dall’origine della vita. Insomma, non esiste un istinto a dare origine a più discendenti
di quanti ne possano sopravvivere separato dall’origine della vita, come
qualcosa che è venuto dopo. Origine della vita, dare origine a individui,
e dare origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere sono il
prodotto, senza soluzione di continuità, della stessa struttura biochimica. In
definitiva, la struttura biochimica che ha dato origine alla vita, non ha smesso,
continua a dare origine alla vita: la prole, e più prole di quanti ne possano
sopravvivere.
Non
c’è stato nessun processo evolutivo, Darwin viene dopo.
Il
darwinismo, come scrive Paul Davies, non può offrire alcun aiuto per spiegare
quel primo passo cruciale: l’origine della vita.
Risulta
però che il termine “origine della vita” deve necessariamente includere :
origine delle prime cellule, adatte a dare origine a prole e a dare più prole
di quanti ne possano sopravvivere. La struttura biochimica di un tale insieme
deve essere stata quindi una struttura molto complessa.
Ancora
secondo Davies: se la teoria centrale della vita non è in grado di spiegarne
l’origine, siamo di fronte ad un serio problema.
Ma
il problema di chi è?
Non
certo di Darwin i cui fatti fondamentali della sua teoria sono stati ampiamente
dimostrati. Ma se non è di Darwin allora il problema è nostro, anzi, il
problema siamo noi.
Siamo
bloccati all’interno di due camicie di forze da cui non riusciamo a liberarci;
da un lato l’ostinazione a non volere ammettere, malgrado sia stato ampiamente
dimostrato, che non c’è nessun collegamento tra il darwinismo e l’origine della
vita. E si continua stancamente a riproporre o un evento casuale o il “Mondo a
RNA. Dall’altro lato, i tentativi di una
spiegazione chimico-fisica, nella ricerca di leggi della complessità e auto
riproduttivi che probabilmente non esistono. Partendo dalle sostanze semplici
note, noi possiamo forse riuscire a spiegare l’origine delle proteine, l’origine dell’acido nucleico, fino a comprendere la formazione di un sistema complesso. Noi
però ci aspettiamo che il sistema complesso presenti delle proprietà cui
possiamo associare delle leggi; e invece il sistema complesso ci presenta dei
concetti.
E
allora, se vogliamo cercare di capire come ha avuto origine la vita dobbiamo
liberarci da queste camicie di forza.
È
ormai abbastanza diffuso tra gli scienziati l’opinione che la cellula non è un complesso
sistema di riproduzione meccanico.
Secondo
Edoardo Boncinelli, “La scienza non ha bisogno di Dio” 2010, degli esseri
viventi ci colpisce soprattutto il
movimento: «Molti di tali movimenti sono finalizzati a raggiungere uno scopo.
Infatti un’altra caratteristica tipica della maggior parte dei viventi è
proprio l’intenzione: essi ci paiono di voler fare qualcosa e adoperarsi per
compierla. […]: l’intenzione compare sulla terra con la vita così come con
molti dei suoi moti interni è comparsa la funzione». E più avanti precisa: «Per
avere un’intenzione occorre possedere un sistema nervoso centrale, seppur
elementare, mentre per avere una funzione questo non è assolutamente
indispensabile».
Il
neuro scienziato Antonio Damasio in “Il
Sé viene alla mente” 2012, va oltre la necessità di un sistema nervoso
centrale. Egli definisce innanzitutto l’omeostasi, presente in tutti gli
organismi viventi, come tutte le operazioni di gestione per procurarsi le fonti
di energia, incorporarli, trasformarli ed eliminare le scorie. Essa mira a mantenere i parametri chimici
dell’organismo (il milieu interno) entro quell’intervallo magico compatibile
con la vita. Damasio evidenzia come
la vita sia
comparsa 3,8 miliardi di anni e che i batteri, con le loro cellule semplici e
non nucleate, furono i dominatori incontratati del pianeta ; soltanto dopo due
miliardi di anni comparvero, per endosimbiosi,
le cellule eucariote, cioè cellule dotate di nucleo . Mentre i batteri necessitano
di vivere in colonie, le cellule eucariote, che costituiscono anche gli
organismi pluricellulare, possono sopravvivere anche individualmente. In
riferimento alla cellula eucariote egli argomenta: «Per semplici che fossero e
siano tutt’ora, le singole cellule avevano quella che sembrava una ferma e
incrollabile determinazione a restare vive fintanto che i geni all’interno del
loro microscopico nucleo ordinavano di farlo. Il governo della loro vita
comprendeva una testarda insistenza a persistere, resistere e prevalere fino a
quando alcuni geni presenti nel nucleo non avessero sospeso la volontà di vivere,
permettendo loro di morire.
it.wikipedia.org |
È
difficile –lo so- immaginare che i concetti di desiderio e volontà siano
applicabili a una singola cellula solitaria. Come è possibile che atteggiamenti
e intenzioni –che noi associamo alla mente umana e intuiamo essere il risultato dei meccanismi del grande
cervello umano- siano presenti a livello così elementare? Eppure, quegli
aspetti specifici del comportamento cellulare sono presenti -sono lì-comunque
si decida di chiamarli.
La singola cellula –priva com’è di conoscenza
cosciente e di accesso ai sofisticati dispositivi di scelta disponibili invece
nel nostro cervello- sembra esprimere un atteggiamento: vuole vivere fino in
fondo la vita prescritta dai suoi geni. La volontà e tutto quanto è necessario
per realizzarla precede la conoscenza
esplicita delle condizioni di vita, sia la riflessione relative a esse, giacché
la singola cellula non possiede né l’una né l’altra. Istante per istante, il
nucleo e il citoplasma, affrontano i problemi posti dalle condizioni di vita e
adattano la cellula alla situazione contingente, in modo che essa possa
sopravvivere. A seconda delle condizioni ambientali, ridispongono e
ridistribuiscono le molecole al loro interno e modificano la forma di sotto
componenti dando prova di una precisione sbalorditiva».
Ora,
l’origine della vita deve essere stata sicuramente un’emergenza. Emergenza la
si deve intendere nel significato dato da Ernst Mayr (opera citata): «La
comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi complessi». «Essa non
racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica». «Spesso nei sistemi
complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si possono prevedere)
neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
In
realtà questo è vero anche per i sistemi semplici. L’acqua è costituita da
Idrogeno e Ossigeno. Conoscendo le proprietà di questi due gas nessuno può
prevedere le proprietà dell’acqua. E questo è vero per tutti i composti
chimici. Solo che alle proprietà dei sistemi semplici e alle loro
trasformazioni siamo riusciti ad associare delle leggi. Per contro i sistemi
complessi che conducono alla vita non presentano proprietà specifiche ma
comunicano per concetti.
Però
non è possibile la formazione, in una sola volta, di un unico sistema così
complesso: cioè una struttura biochimica che racchiude in sé l’origine della
vita (cioè origine delle prime cellule capaci di dare origine alla prole e dare
più prole di quanti ne possano sopravvivere). Se emergenza è stata, essa doveva
consistere di diverse soglie, come una scala ad ogni gradino una nuova soglia,
ad ogni soglia una struttura biochimica leggermente diversa e un po’ più
complessa.
Se
la singola cellula eucariote esprime intenzionalità, quale concetto esprime la
cellula batterica e quale concetto esprime la prima struttura biochimica per
aver spinto l’ emergenza a salire la scala della vita?
Quando,
partendo da dati e fatti e procedendo verso una teoria possibile dell’origine
della vita, incontreremo sistemi per i quali le leggi della chimica non ci sono più di nessun aiuto, ecco lì forse ha
origine l’emergenza. Quello, forse, è il primo gradino dove inizia la vita e dove la
chimica diventa biologia.
Giovanni Occhipinti
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