Da un amico ricevo e pubblico
Post n. 62 di Lorenzo Lo Presti
La competitività tra
gli esseri umani ha origine dalla comune tendenza degli esseri viventi a
sopravvivere il più possibile, e garantire così la prosecuzione della propria
specie. Ma ciò che si definisce “istinto di
sopravvivenza” è in realtà il risultato postumo di una selezione naturale che
ha portato a sopravvivere, tra gli individui di ciascuna specie, quelli le cui
caratteristiche genetiche si sono rivelate più adatte a garantirne la
riproduzione nel contesto in cui si trovavano a vivere. Non esiste quindi un
vero e proprio “istinto” di
sopravvivenza, ma semplicemente il risultato di una lunga selezione naturale
che ha portato all’estinzione degli
individui che non avevano sufficienti caratteristiche riproduttive nel contesto
dove vivevano. Affermare che non esiste l’istinto di
sopravvivenza, può apparire azzardato e fuorviante, oltre che in contrasto con
qualcosa che riteniamo quasi un postulato della vita. Del cosiddetto “istinto
di sopravvivenza” non appare del tutto esaustiva la parola “istinto”,
che può sembrare un modo di prendere atto, a posteriori, di un comportamento
che osserviamo diffusamente nel mondo animale e tra gli umani, ma di cui non
siamo capaci di spiegarne le motivazioni profonde che ne sono all’origine. C’è
da chiedersi perché gli uomini vogliono vivere a qualsiasi costo, anche in
situazioni di sofferenza estrema, come avveniva ad esempio nei lager nazisti? È
sufficiente un “istinto” a
determinare tale comportamento? Di contro gli indiani d’America,
giunti alla vecchiaia, decidevano consapevolmente di lasciarsi morire dandosi
in pasto agli avvoltoi. Certo, il loro comportamento era motivato dalla scelta
di non gravare sulle possibilità di sopravvivenza della loro tribù, quindi si
potrebbe dire che fosse una scelta di origine “culturale”
a vantaggio della comunità. Ma in realtà tale comportamento era mutuato dall’osservazione dei lupi, dove gli esemplari anziani si
allontanavano lasciandosi morire, per non gravare sul branco. Viene difficile
pensare a un comportamento “culturale” o “razionale”
dei lupi, ma qualsiasi ne sia la motivazione essa è in evidente contrasto con
“l’istinto di sopravvivenza”.
E viene da chiedersi
il perché l’istinto di sopravvivenza non abbia
impedito ai pellerossa, e anche ai lupi, di lasciarsi morire.
Nei due casi citati
(I lager e I pellerossa) ci troviamo di fronte a due opposti comportamenti, in
apparente contraddizione: nel primo caso la strenua volontà di vivere, nel
secondo la scelta di lasciarsi morire.
Si può certamente
dire che si tratta di casi estremi, ma avendo riguardato entrambi una
moltitudine di individui, possiamo ritenere che siano significativi per tentare
di descrivere il comportamento della specie umana, oltre che a riflettere sul
significato da dare all’istinto di
sopravvivenza, la cui comprensione profonda, a parere di chi scrive, resta
irrisolta.
In definitiva, se la
cultura spegne l'stinto alla sopravvivenza allora cos'è questo istinto?
Ad aiutare gli umani,
e gli animali in genere, a sopravvivere è inoltre il meccanismo del dolore,
associato per esperienza alla possibilità di morire, il che aiuta i viventi a
evitare il rischio di soccombere. Un eventuale animale che, per alterazione genetica,
dovesse essere incapace di provare dolore, avrebbe limitate capacità di
sopravvivere e quindi di riprodursi e diffondere tale diversità genetica.
Queste considerazioni
possono essere applicate a ogni essere vivente del mondo animale e, in parte,
vegetale. Si potrebbe Inoltre desumere che la competizione tra individui di una
stessa specie sia un fattore positivo e determinante per il rafforzamento e la
prosecuzione di quella specie. Questo vale maggiormente all’interno
di un ipotetico sistema evolutivo isolato e privo di contatti con altri sistemi
evolutivi. Darwin, infatti, intuì ed elaborò la sua teoria sulla
evoluzione delle specie osservando l’evoluzione
di animali e piante in un sistema naturale relativamente isolato, quale quello
delle isole Galapagos, dove le interferenze tra le specie erano ridotte a causa
della oggettiva difficoltà di “colonizzazione” da
parte di altre specie, dovuta alla grande distanza dalla terraferma
continentale. In questo contesto ne conseguiva che la selezione all’interno di una singola specie scaturiva soprattutto
dalla “competitività” tra
individui biologicamente simili, con limitate interferenze da parte di specie
terze.
Tornando alla specie
umana è probabile che la “competitività biologica” tra individui abbia avuto un
ruolo determinante, se non esclusivo”, fino alla comparsa dell’Homo Sapiens, ovvero circa 300.000 anni fa. Prima
di allora, la competizione tra gli ominidi, al pari di ogni altra specie
animale, scaturiva dalla necessità di nutrirsi e riprodursi. Ma dall’homo sapiens in poi gli umani hanno iniziato a
distinguersi per l'uso di strumenti più sofisticati, e soprattutto per lo
sviluppo del linguaggio, l'arte e la cultura complessa.
L’introduzione
di questi elementi ha fatto sì che il processo evolutivo degli umani sia stato
sempre più determinato, oltre che dagli esiti della competitività biologica
(forza fisica, resistenza alle avversità, capacità sensoriali...), anche dalla
competitività sul piano genericamente culturale (capacità deduttive,
creatività, uso del linguaggio...).
L’evoluzione
culturale, specie con l’introduzione
del linguaggio, ha comportato anche una modificazione biologica del cervello,
accrescendone il volume, oltre a cambiamenti significativi negli arti e nei
muscoli, conseguenti alle mutate possibilità di interazione degli umani con il
contesto dove agivano.
Negli ultimi
decenni siamo in presenza di un “gradino di
accelerazione” ancora più decisivo quale fattore competitivo determinante per l’evoluzione tecnologica degli umani. Si tratta dell’informatica e delle possibilità di utilizzo dell’intelligenza artificiale in
quasi tutti i campi della conoscenza scientifica, della tecnologia e persino
nel campo umanistico e delle arti.
Quest’ultimo
elemento ha introdotto un nuovo fattore di enorme accelerazione nella
componente “culturale” in grado
di agire sulla “competitività” come
fattore evolutivo degli umani. In altre parole, la specie umana si sta sempre
più evolvendo in quanto sempre più capace di piegare alle proprie necessità
materiali il contesto in cui vive, e ciò grazie alla crescita esponenziale
della componente “culturale” della
competitività.
La nostra possibilità di “prevalenza evolutiva” sugli altri esseri viventi, e
quindi di sopravvivenza, dipende sempre meno dalla pura competitività biologica, cioè forza fisica, resistenza alle avversità e capacità
sensoriali. In altre parole, si potrebbe dire che la specie umana, già ora, ma
ancora di più in futuro, non è, e non sarà, il risultato di una selezione
biologica, ma di una selezione culturale.
Detto
brutalmente: sopravviveranno non i più forti, ma i più intelligenti.
Ma è proprio così? Il prevalere dei fattori competitivi
culturali su quelli biologici porterà a una specie umana di per sé più intelligente? L’intelligenza ha un valore in sé, o è tale se finalizzata a uno scopo superiore? La
competitività accresce l’intelligenza,
o vale il contrario?
Se la
competitività biologica ha selezionato, nell’arco di
milioni di anni, una specie umana in grado di sopravvivere meglio, non è
affatto scontato che l’evoluzione,
conseguente alla competitività culturale, potrà portare in soli 10.000 anni a
uno stesso risultato.
La competitività
culturale ha avuto infatti due conseguenze fondamentali che mettono persino
a rischio la permanenza della specie umana:
1. Ha certamente
ingigantito a dismisura il potere degli umani nel piegare l’ambiente
ai propri bisogni materiali. Questo ha consentito di produrre una maggiore
quantità di beni alimentari e di merci dando il via a una forte crescita
demografica, tuttora in corso, che ha portato la popolazione mondiale da circa
1 miliardo di individui nell’anno 1800
agli attuali 8,2 miliardi, con una forte impennata negli ultimi decenni. A
questo incremento di popolazione si accompagna una sempre maggiore necessità di
consumare le risorse del pianeta, che ovviamente non sono illimitate, oltre che
una crescita drammatica dell’inquinamento
ambientale. Tutto ciò ha innescato un circuito vizioso su cui sarà inevitabile
intervenire attraverso un forte controllo delle nascite, con tutte le
conseguenti criticità sociali, politiche e religiose. Non è difficile
comprendere che l’eventuale incapacità
a gestire efficacemente questo enorme fenomeno porterebbe inevitabilmente a
fortissime tensioni sociali e alla possibile estinzione della specie
umana. Sarebbe la paradossale
conseguenza della competitività “intelligente” degli umani.
2. È tuttavia vero che
ogni tipo di competitività, sul piano personale, sociale o politico, comporta
una forma di stimolo verso il miglioramento nei rispettivi ambiti. Basti
pensare alle competizioni sportive o artistiche, alla produttività aziendale,
alle economie di mercato, ai confronti elettorali, agli armamenti e alle
alleanze militari.
Tuttavia, alle ricadute positive in ciascuno di questi
ambiti ne conseguono “effetti collaterali”
negativi, che ne compromettono spesso i vantaggi.
Si ritrova la competitività in quasi tutte le narrazioni
storiche, dove gli eventi del passato sono quasi sempre raccontati come
sequenze di conflitti, con vincitori e vinti, e con interi popoli che restano
sullo sfondo e di cui pochi ne raccontano costumi, usanze, aspirazioni.
La cultura
degli umani è plasmata dalle narrazioni ricevute dai loro predecessori.
Ulisse fu decisivo
per la vittoria su Troia, non grazie alla forza, ma per la sua astuzia, che
permise a un gruppo di coraggiosi soldati achei di penetrare dentro le mura di
Troia, nascosti dentro un cavallo di legno, accolto ingenuamente dai troiani
come un dono da parte degli achei.
La stessa astuzia che
permise a Ulisse di vincere il gigante Polifemo, ubriacandolo e accecandolo, o
di fingersi mendicante per potere entrare nella sua reggia ad Itaca per
uccidere i pretendenti che ambivano alla moglie Penelope.
Sono queste le storie
che hanno affascinato per secoli generazioni di uomini, contribuendo fortemente
a segnarne la cultura e i valori. Sono tutte storie dove la competitività ne
rappresenta il tratto dominante, insieme ad altri comportamenti che hanno contribuito
a diventare le fondamenta dei valori della cultura occidentale.
Nell’Odissea troviamo
la donna intesa come proprietà esclusiva dell’uomo, tanto che Menelao
scatenò una guerra per riprendersi la moglie Elena che era fuggita a Troia con
l’amato Paride. Troviamo la sottomissione femminile in Penelope che
aspetta paziente e fedele il suo Ulisse che nel frattempo, peregrinando per
mare, trovava conforto in Nausica, Calipso e Circe. Troviamo l’esaltazione
dello spirito di vendetta, quando Ulisse stermina i Proci, ovvero un
gruppo di nobili principi la cui principale colpa era quella di proporsi a
Penelope. Troviamo infine la volontà di conquista e di superamento dei
propri limiti, che pervade l’intera opera di Omero.
Certo, si tratta in
gran parte di una leggenda, ma l’epicità della storia, ha reso l’Odissea e i
suoi simbolismi l’archetipo fondativo della cultura occidentale, che
nell’arco di un paio di millenni ha permeato gran parte dei popoli della terra.
Una cultura che
promuove la vendetta come regolatrice dei conflitti, sia privati che politici.
Una cultura che ha
trasformato un furbo in un eroe, ammirato e celebrato.
Passando dalla storia
alle competizioni sportive, non c’è alcun dubbio che la pratica dello sport
comporti un beneficio per la salute di chi lo pratica, tanto è vero che le
attività fisiche sono inserite tra le materie scolastiche curriculari dei vari
ordini di scuola. A fronte di questo fondamentale aspetto positivo dello sport,
nell’opinione pubblica prevale invece l’idea di sport come competizione, di cui le Olimpiadi ne
sono la più alta e “nobile” espressione. In realtà questi grandi eventi
rappresentano spesso esibizioni di potere politico, che compete con altri
poteri politici, all’insegna di evidenti nazionalismi e di pronunciamenti
intrisi di retorica.
In ogni caso la
pratica in genere dello sport agonistico, accanto alle gratificazioni dei pochi
vincenti, comporta la frustrazione, e a volte la depressione psichica, di tanti
perdenti.
Lo sport, inteso
principalmente come attività salutare del corpo, potrebbe e dovrebbe
salvaguardare nello stesso tempo i suoi aspetti di divertimento popolare e
spettacolare, senza necessariamente associarsi agli enormi interessi politici
ed economici che ruotano attorno ad esso, e a condizione che si depuri degli
effetti distorsivi degli eccessi di competitività.
Il gioco, sia esso
sportivo o ludico, svolge un ruolo importante fino all’adolescenza,
nell’accrescere l’autostima oltre che le
capacità fisiche e mentali. Tali funzioni sono utili anche nell’età
adulta, a condizione che la raggiunta maturità dia la capacità
di ridimensionare gli eccessi emotivi conseguenti alle vittorie e alle
sconfitte.
Ancora più che nello
sport, dove almeno i risultati sono oggettivamente misurabili, nell’ambito delle manifestazioni artistiche (festival della
musica, del cinema, premi e concorsi letterari...), dove la valutazione della
qualità delle opere è soggetta a criteri soggettivi (oltre che a interferenze
esterne di tipo politico o economico...). si manifesta tutta l’arbitrarietà
di queste manifestazioni, dove molte delle canzoni, dei film e dei libri
concorrenti verranno presto dimenticati, e dove, anziché l’arte
e la cultura, prevalgono su tutto le passerelle di corpi e di vestiti.
Del resto, sarebbe
meglio limitarsi semplicemente a presentare le opere artistiche nelle “vetrine”
delle varie manifestazioni, lasciando al pubblico fruitore il compito di
decidere le sorti, e l’eventuale
successo, di ogni singola opera, anziché affidare il giudizio a improbabili
giurie.
Passando all’ambito
dell’andamento economico delle aziende,
prevale spesso anche qui la logica della competizione fine a sé stessa, come se
bastasse solo l’entità di un
fatturato a rendere migliori i prodotti di un’azienda.
L’invasività e aggressività delle promozioni pubblicitarie scaturisce proprio
dalla corsa al fatturato come indice assoluto del successo aziendale, a scapito
spesso della qualità dei prodotti e della loro durata (ne è un esempio
clamoroso “l’obsolescenza programmata” diffusa negli elettrodomestici e nei
dispositivi elettronici, oppure “l’obsolescenza indotta” dalla moda nei capi
d’abbigliamento).
Si legge pure spesso
di fusioni tra banche e compagnie assicurative che diventano sempre più grandi,
a beneficio di soci e azionisti, ma di cui i clienti non ne avranno alcun
beneficio.
Nelle valutazioni dei
bilanci aziendali l’imperativo è la
crescita permanente del fatturato, come se i mercati su cui si opera dovessero
essere anch’essi a crescita illimitata.
Il mantenimento di un
bilancio stabile ed equilibrato negli anni, sufficiente a mantenere il
benessere economico, viene definito, con sottinteso negativo, “stagnazione
economica”.
Pochi sanno inoltre come funzionano i
cosiddetti “mercati” nel panorama
dell’economia mondiale. Eppure, sebbene
in modo imperscrutabile, il loro andamento influenza la vita e il benessere di
miliardi di individui nel mondo. I loro meccanismi di funzionamento sono
sovranazionali, rendendo velleitaria ogni aspirazione di sovranismo economico
su scala nazionale.
Oggi la vera e unica forza “internazionale”
presente nel mondo non è quella dei proletari, auspicata da Marx, ma quella del
Capitale, che dava il titolo alla sua massima opera. Marx si riferiva però al
Capitale produttivo, ma oggi il Capitale dominante è quello della finanza. Esso
non è governato da “padroni” fisicamente definiti, ma da “agenti”
che spostano flussi enormi di denaro sulla base di aspettative, di intuizioni,
di indiscrezioni, di scommesse a rischio, oppure affidandosi a complicati
algoritmi. Insomma, un potere fluido, indefinibile e inafferrabile,
sostanzialmente “anarchico”, di cui nessuno può dire di essere capace
di capirne a fondo i meccanismi. In tutto questo l’economia
liberista dei Mercati trova la sua imbattibile forza. È il luogo dove il potere
“competitivo” trova la
sua massima espressione.
Tutto questo dovrebbe
essere governato dalla Politica, ma le possibilità che questa ha di agire
dentro i propri confini nazionali è limitata, mentre fuori da tali confini è
generalmente quasi nulla.
Le competizioni
elettorali sono basate su programmi mutevoli, in funzione di sondaggi che
stanno di fatto inficiando le consultazioni elettorali stesse. Le basi
ideologiche che dovrebbero definire l’identità
dei partiti, al di là delle enunciazioni di principio, sono spesso nella realtà
frutto di sommatorie che mettono insieme non le idee, ma personalismi e
interessi. La competizione politica si verifica spesso dentro i partiti e non “tra”
i partiti. Del resto, questi ultimi sono delle associazioni private che, pur
riconosciuti dall’art.49 della
Costituzione, non sono soggetti a una efficace regolamentazione pubblica,
nonostante il loro ruolo determinante sul piano legislativo.
Ma certamente l’ambito
dove la competitività degli umani manifesta gli aspetti più preoccupanti
rispetto al destino della stessa specie umana è quello militare. Qui l’evoluzione tecnologica ha avuto una enorme
accelerazione, portando le nazioni più potenti alla potenziale capacità di
distruggere l’intera umanità
in poche ore, attraverso l’uso massiccio degli armamenti nucleari.
In altre parole, oggi gli umani affidano
la loro vita non più all’istinto di
sopravvivenza ereditato dall’evoluzione
biologica, ma al paralizzante terrore di essere spazzati via dal potere
distruttivo a cui ci ha portato l’evoluzione
tecnologica, figlia della competitività umana.
Le due evoluzione
hanno avuto velocità enormemente diverse. L’evoluzione
biologica è avvenuta in milioni di anni, mentre l’evoluzione
tecnologica in poche centinaia. Ma le nostre capacità di elaborazione mentale
non si sono evolute alla stessa velocità della crescita tecnologica, tanto che
le attuali capacità culturali degli umani si stanno rivelando il vero ostacolo
alla sopravvivenza della specie. Il valore che abbiamo dato alla competitività
in tutti i livelli della coesistenza umana, contiene le premesse dell’autodistruzione della specie.
Si può tuttavia ritenere che la competitività appartenga al
bagaglio genetico dell'essere umano, al pari dell'egoismo, della prepotenza,
della violenza e di altri tratti negativi della nostra specie. Ma se si
conviene che tali caratteristiche contrastano con il buon funzionamento di una
società organizzata, allora diventa evidente che una società che promuove la
competizione come valore positivo, da esaltare in ogni ambito, (anziché
biasimarne gli effetti), non fa altro che accentuare le conseguenti ricadute
negative della competitività stessa, fino a mettere a rischio la tenuta
sociale.
In altre parole, si potrebbe affermare che l’esaltazione
della competitività tra gli umani potrebbe diventare, se non ben controllata
dalle regole sociali e da una controcultura che ne sveli i pericoli, la
principale causa di una regressione evolutiva della specie umana stessa, fino
al rischio estremo della scomparsa degli esseri umani.
Occorre invece promuovere i valori alternativi della cooperazione,
condivisione, solidarietà,
non solo perché ritenuti positivi e migliorativi della convivenza sociale, ma
soprattutto perché necessari alla sopravvivenza della specie.
Su scala planetaria, solo una politica globale, elaborata da un unico governo autorevole e sovranazionale, dotato della necessaria forza per imporre le scelte legittimate da un consenso popolare e maggioritario, potrà realizzare cambiamenti radicali, basati sull’equità e la pacifica coesistenza tra le varie etnie, anziché sulla competitività e il suprematismo dei più forti.
Solo agendo in questo
modo si potrà garantire il bene comune, e un futuro per l’intera
umanità
basato, non sulla crescita perpetua, ma sull’equilibrio tra i bisogni degli
esseri umani e le risorse del pianeta.
Certamente è un obbiettivo lontano e difficile da realizzare, una utopia
che definisce la direzione e i bordi di una strada, ma non i dettagli del
percorso, né i tempi che esso richiede. Ma avere un obbiettivo e una direzione
aiuta certamente a valutare se anche i piccoli e possibili passi muovono
l’umanità nella direzione giusta, anziché verso il baratro.
Tra le tante aspirazioni degli esseri umani questa è l’utopia più realistica e necessaria.
Lorenzo Lo Presti
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